Tamara non usava più la valigia, che restava ferma nel secondo armadio del suo appartamento. L’armadio per il cambio di stagione. Adesso usava un borsone marrone dove infilava e pressava i vestiti, e poco importava se quando lo svuotava e li sistemava in qualche armadio lontano chilometri i vestiti erano in disordine, stropicciati, con pieghe a decine. A lei non interessava più la perfezione, non le interessavano più le righe dritte o parallele, preferiva le curve. Non le interessava più il modo corretto di stare al mondo, le importava di essere al mondo.
Essere vivi ogni giorno in un modo o nell’altro, nonostante le fratture, le cadute, gli inciampi: scrive di una perfetta normalità, Francesca Piovesan, giovane scrittrice veneta autrice di A pelle scoperta (Arkadia editore collana sideKar).
In questa raccolta di racconti dalla scrittura compiuta, già matura – a stento si crede trattarsi di un esordio – il piano della narrazione è un quotidiano riconoscibile, in cui è facile identificarsi. Potrebbero essere la nostra vicina di casa l’adolescente che scambia i primi sguardi d’amore tra le luci accecanti del lunapark, ignara delle avvisaglie del bruciore urticante di una prossima delusione; potremmo essere noi i figli che assecondano – senza porre domande – intemperanze e fissazioni di madri anziane e malate; potremmo trovare fra le nostre conoscenze bariste venuta dall’Europa dell’Est della cui solitudine nulla sappiamo, e ancora donne che preparano gli zainetti ai figli a settimane alterne per consegnarli – e gli zainetti, e la prole – al coniuge nel weekend di turno. E ancora può darsi ci si sia imbattuti in professori persi nel cliché del perenne charmant o in stimati professionisti che portano avanti parallelamente alla vita coniugale abbozzi di rapporti virtuali con sconosciute (di cui si però si spiacciono queste facciano lavori di basso profilo: una macellaia, nel caso specifico del bellissimo, esemplare, racconto Un lungo respiro: un mestiere di così poco fascino).
Esistenze di banalità sconcertante in cui nulla eppure tanto accade, a fior di quella pelle del titolo ma anche al di sotto, sui corpi scorticati, a muscoli esposti: contiene dentro questi confini la sua esplorazione narrativa, Piovesan, in zona d’ombra spessa.
Ogni breve racconto porta con sé una tensione perfetta e veloce, affidata a un parlato di frasi svelte e secche alternate all’inespresso, a lasciare sottese ma percepibili crepe che diventano squarci.
Anche nella descrizione -puntuale, acutissima – Piovesan si attiene a un linguaggio piano, contenuto, pulito, del tutto appropriato alle cose piccole a cui la raccolta è espressamente, significativamente, dedicata: come nel più bello dei racconti, Svitlo, storia di un viaggio in autostrada, una strada senza senso, senza un orizzonte, con una linea di fine fasulla, che ancora rivelava altra strada e altre auto, che si interrompe in un’area di sosta: Degli autogrill le piacevano i colori, le cioccolate in offerta, le cose tipiche del self-service, e quando c’erano i libri dell’ultimo momento che tutti sfogliavano e pochi compravano. Le piaceva il percorso obbligato, il percorso che sembrava la vita. Le piacevano le persone che guardavano le offerte della colazione che poi consumavano sopra un tavolino altoin piedi, circondati da briciole e monetine che svelavano gratta e vinci. Le piacevano anche i bagni […] il lavarsi le mani uno accanto all’altro l’accorgersi che il dispenser del sapone era vuoto come il contenitore delle salviettee il getto dell’aria che non funzionava. Il pacchetto di fazzoletti da ricercare nella borsa con le mani bagnate, l’odore di amuchina penetrante, le inservienti che portavano quei carrelli per distruggere i batteri e si alternavano nella battaglia con dei turni ben precisi segnati su un foglio attaccato all’ingresso, di fianco allo specchio.
La sosta si fa (pre)testo, l’essere altrove porta la protagonista a parlare di una casa, la sua, quelle degli altri, per le quali subisce una sorta di fascinazione: A Lucia piaceva sempre sapere della casa, le piaceva immaginare le persone che cucinavano, che preparavano la vasca per un bagno […
] Immaginava le case di tutti i clienti della banca dove lavorava, alcune le aveva anche viste quando da giovane consulente era andata a proporre i pacchetti finanziari a domicilio. Le avevano offerto sempre da bere in calici bagnati e spolverati per l’occasione, mentre lei aveva continuato a immaginare i veri bicchieri che si asciugavano nello scolapiatti.
Trova una voce diversa per i suoi personaggi, Piovesan, che in comune conservano però una condizione di rara grazia e fragilità quando prestano il fianco, indifesi, alle esigenze degli altri che premono, quotidiane, ognuno con la propria, di logica.
A cui soccombere o opporre, come le donne e gli uomini di A pelle scoperta, una resistenza intima e schiva.
Anna Vallerugo