Francesca Scotti non è mai stata una promessa della letteratura italiana. Vincitrice del Premio esor.dire 2011 con il racconto La pace di chi ha sete e sta per bere, fin dal suo esordio, nello stesso anno, con l’antologia Qualcosa di simile, edita da Italic, si è posta all’attenzione come un’autentica realtà. Sicuramente aiutata da un lavoro di editing professionale, com’è difficile trovarne in Italia, l’autrice milanese si presenta al pubblico con dieci racconti potenti, evocativi. Stile elegante e leggero, diretto e incisivo, la Scotti è di un’essenzialità unica, che non le fa scrivere mai una parola di troppo. Usa gli strumenti narrativi con una padronanza da professionista navigata, e il suo punto forte è una maturità letteraria che non ti aspetteresti da una giovane scrittrice: ha la capacità di mantenersi al di sotto delle sue possibilità letterarie per gestire i testi senza mai arrancare, senza mai dover usare artifici che provocherebbero cadute di stile o di tono. La limpidezza e l’omogeneità della sua narrativa ne fanno una delle voci più autentiche e cristalline che oggi abbiamo nel nostro paese.
Francesca Scotti è nata a Milano, nel 1981. È laureata in Giurisprudenza e si è diplomata al Conservatorio. Suona il violoncello. Vive tra l’Italia e il Giappone. I suoi frequenti viaggi nel paese del Sol Levante hanno originato un forte interesse per la cultura e le abitudini nipponiche che, insieme alla musica e al cibo, che sono altre sue passioni, sono sempre presenti nei suoi testi. Questa è un’altra peculiarità della sua scrittura: il fatto di inserire nelle trame elementi che conosce bene, non fa altro che rendere più compatta la narrazione, senza che le vicende si dipanino “per sentito dire” ma con una precisione che è parte integrante della sua cultura. Ho avuto l’occasione di incontrare Francesca più di una volta e presentare due dei suoi libri: la sua è una cultura universale, aperta, che si nutre di una curiosità a trecentosessanta gradi. È un piacere parlare con lei di letteratura, musica o Giappone o qualsiasi altro argomento e il pubblico rimane affascinato dalla sua capacità oratoria, dai curiosi aneddoti che racconta, dal suo modo di fare sempre affabile e disponibile.
Il percorso di Francesca è esemplare. Nel senso che in ogni nuovo testo – il suo ultimo lavoro, Il cuore inesperto, è un romanzo, lunghezza a cui l’autrice milanese è arrivata passando per L’origine della distanza che, come vedremo, può essere considerato di una struttura intermedia –, ha consolidato la qualità dei lavori precedenti aggiungendo sempre qualcosa in più. Credo che Francesca sia perfettamente conscia delle proprie potenzialità letterarie e che abbia scelto, consapevolmente, di metterle in campo solo nel momento in cui si rende conto di poterle gestire con facilità. La giovane età le permette di non avere fretta e di gestire la propria carriera senza accelerazioni che potrebbero crearle antipatici incidenti di percorso. Ma, come già detto, il superfluo nella narrativa di Francesca, non esiste.
Un’altra dote dei suoi testi è l’universalità. Credo che molti scrittori italiani, troppi per i miei gusti, siano legati ad ambientazioni che non riescono a decollare, che rimangono chiuse in un provincialismo troppo legato ai luoghi di riferimento. Il respiro delle trame di Francesca, invece, è globale: le sue storie, seppure ambientate in luoghi precisi, non sono mai troppo specifiche. E la lettura ne guadagna.
Bibliografia
Qualcosa di simile, Italic, 2011, Premio Fucini 2011;
L’origine della distanza, Terre di Mezzo Editore, 2013;
Il cuore inesperto, Elliot, 2015;
Le opere
Come accennato sopra, Francesca esordisce nel 2011, con l’antologia di racconti Qualcosa di simile. I racconti della Scotti sono senza titolo ma numerati progressivamente. Ogni racconto contiene una scheggia del precedente facendo sì che le storie, seppure con ambientazioni e personaggi diversi, siano legati da una continuità che dà maggior qualità a ogni singola storia. I racconti presenti sono dieci, e i fili conduttori più visibili sono la musica, il cibo, la malattia mentale e il Giappone. L’autrice spazia tra diverse relazioni interpersonali (familiari, di amicizia, sentimentali) ed è sempre presente un elemento che scardina l’ordinario portando la vicenda verso l’estremo. Una delle peculiarità della scrittrice milanese è l’incompiutezza delle storie e l’inafferrabilità dei personaggi che crea un senso di sospensione che, paradossalmente, rende nitidi i personaggi e realistiche le vicende.
Il racconto 1 è uno dei gioielli dell’antologia: Camilla torna a casa dopo un ricovero in una casa di cura per delle terapie psichiatriche non meglio precisate. Sua madre mette da parte le sue paure e organizza una festa per il suo rientro a casa. Consigliata dai medici a dare fiducia alla ragazza senza trattarla come una malata, le chiede di preparare un dolce, un’attività che Camilla ha sempre amato nonostante i dolci non li mangi. Una dimenticanza banale porterà a un finale imprevedibile.
Il racconto 3 parla di un dottore ossessionato dal cane dei vicini. Lo definisce maniacale e compulsivo, il protagonista, tanto che, disturbato dalla sua presenza, decide di farlo fuori. Quando i vicini si accorgono che il loro cane è morto, si offre di andare a seppellirlo. Ma anche qui la storia, alla fine, subisce una brusca sterzata che metterà il protagonista sotto una nuova e inquietante luce.
Nel racconto 5 una donna, Cecilia, in una spiaggia insieme alla giovanissima figlia, riconosce la sua maestra giapponese di pianoforte di trent’anni prima. L’insegnante le aveva detto che sarebbe tornata in Giappone e rivederla in Italia per lei è una sorpresa. Si avvicina per farsi riconoscere: la maestra nel frattempo è diventata cieca. Cecilia e la figlia Mara sono invitate dalla maestra a bere un tè nella sua casa e la donna accetta volentieri, seppure la figlia sia contrariata perché vorrebbe rimanere in spiaggia. La casa è incantevole ma senza le cose superflue (quadri, libri, giornali) per una persona cieca.
Nel bagno però Mara trova le conchiglie e i vetrini che la maestra aveva raccolto sulla spiaggia prima di perdere la vista. Questo fa sì che anche questa storia prenda una direzione inaspettata, che capovolge in modo netto il rapporto che si era creato tra i tre personaggi.
Lo stile fluido, le parole mai fuori posto che l’una vicina all’altra danno una forte musicalità al testo, come fossero scritte su uno spartito, le vicende semplici ma dotate di uno sguardo profondo, le ambientazioni sempre molto particolari, i personaggi dipinti con tratti efficaci rendono queste storie uniche, vicende che restano nella mente del lettore. Sono storie in cui il non detto, un’altra caratteristica di Francesca, è importante quanto l’esplicito. Evidente, visti i risultati, lo studio della struttura e della forma migliore da parte della Scotti per rendere la narrazione più efficace.
Nel 2013 la casa editrice Terre di mezzo pubblica L’origine della distanza. Nelle diverse recensioni presenti in rete, il libro viene definito romanzo, affermazione che non mi trova del tutto d’accordo. Il testo è composto da otto storie in cui l’ambientazione (il Giappone) e la protagonista (Vittoria) sono sempre gli stessi. Manca però quel filo lineare temporale (non sto parlando per forza di trama), o altro espediente letterario che possa motivare la definizione. Credo che anche l’obiettivo della scrittrice milanese non fosse, in quel periodo, quello di scrivere un romanzo.
Vittoria, la giovane protagonista, decide di partire per raggiungere Lorenzo, un ragazzo che ha conosciuto in Italia ma lavora in Giappone. Alla vigilia della partenza lui le telefona e le dice che non lo troverà. Non è affatto generoso di spiegazioni, ma invita Vittoria a partire lo stesso. Pur combattuta, pensando che forse quello di Lorenzo sia uno stratagemma per dare un taglio alla loro storia appena cominciata, decide di partire. E l’assenza del ragazzo sarà uno dei nuclei fondamentali che attraversano il libro. Vincendo i timori e i dubbi sulla distanza che la separerà da casa, Vittoria trova una realtà molto lontana dalle sue abitudini e dai cliché occidentali ma che neanche tanto lentamente comincerà ad amare. Le dodici storie sono divise nei periodi di due ore in cui l’astrologia orientale divide, oltre che l’anno, la giornata. I famosi animali dello zodiaco orientale.
Francesca racconta il Giappone dal punto di vista di un’occidentale, e questo fa sì che per il lettore sia più semplice entrare in una cultura così diversa dalla nostra e capire quanto profonda sia la distanza tra di esse.
Tanti personaggi girano intorno a Vittoria, e ognuno porta le sue esperienze e il suo bagaglio di vita vissuta. L’origine della distanza non è un libro solo sulla distanza, ma è un viaggio che la protagonista, lontanissima da casa, compie dentro se stessa. Le vicende che vive e le persone che incontra non sono altro che uno strumento per scoprire la sua parte nascosta che non sarebbe venuta fuori altrimenti.
La capacità dell’autrice è di mantenere una chiarezza e una linearità solo in superficie, con cui riesce ad aprire squarci interiori con la delicatezza che le è propria. Anche le situazioni più scabrose e drammatiche sono trattate con una sensibilità unica che lascia però intatto l’impatto sul lettore.
Perfetto direi, come al solito, il lavoro di sottrazione. Un vero scrittore contemporaneo, credo, non può esimersi dall’eliminare orpelli e barocchismi inutili che appesantiscono il testo.
Recente è l’uscita di Il cuore inesperto, per Eliot, quello che personalmente considero il suo primo romanzo. La trama è abbastanza semplice, in linea con la quotidianità che si vive ogni giorno.
Anita, una diciottenne che studia la viola, non ha un’esistenza semplice. Oltre a passare ore a studiare il suo strumento, instaura una relazione con il suo nuovo insegnante al Conservatorio, Gabriele. Lui ha venticinque anni più di lei, un passato pieno di rimpianti e trova nella ragazza un’inaspettata occasione di rivalsa. Anita ha anche una relazione che non si chiarirà mai con Ludovico, un suo coetaneo.
La situazione in famiglia non è delle migliori: dopo un periodo confuso, i suoi genitori si separano. La madre, traduttrice dal giapponese, non è mai stata e non sarà mai un punto di riferimento per la giovane. Anzi, è più Anita che si preoccupa per lei che viceversa. Il padre cerca di rifarsi una vita e sembra essere più attento alle esigenze della nuova compagna che della figlia. Da sottolineare che i genitori di Anita non sono mai chiamati per nome di battesimo, ma sono sempre definiti come padre e madre.
Tutti i protagonisti, dalla giovane Anita alla sua anziana vicina Luisa Cordini, vivono in una loro personale solitudine. Solitudini diverse anche a causa delle loro differenti età con cui la scrittrice copre l’arco di un’intera vita.
La vicenda scorre omogenea e compatta, senza cadute di tono, e mantiene una costante tensione alimentata da quel senso di sospensione che, come ripeto, è una delle peculiarità dell’autrice milanese.
In questo suo lavoro, l’autrice ribadisce, migliorandole, le sue qualità. Anche nella distanza del romanzo, che non aveva mai affrontato, ritroviamo una limpidezza di linguaggio, una costruzione – Francesca chiede al lettore lo sforzo di seguirla nei suoi salti temporali – studiata, uno stile essenziale, una facilità di narrare che è davvero sorprendente. I passaggi dalla prima alla terza persona all’interno del romanzo ricordano Fleur Jaeggy, la grande scrittrice svizzera di lingua italiana.
La sua sensibilità letteraria la porta a non affondare mai troppo il colpo, e il risultato è un’eleganza che pervade il testo in tutti i suoi aspetti. Nelle diverse descrizioni di scene di sesso, ad esempio, non trascende mai pur riuscendo a essere esplicita.
Scrittrice raffinata, di grande talento, già dall’inizio della sua carriera letteraria, Francesca Scotti ha già raggiunto un livello d’eccellenza. Lei ne è consapevole e sono certo che lavorerà senza fretta per regalarci altri libri che entreranno nella miglior tradizione della letteratura.
Roberto Sturm
Dicono della letteratura di :
Marco Missiroli
È la timidezza, anzi la discrezione, il codice di Francesca Scotti: non è solo una questione di lingua, limpida e misurata, ma di sguardo sottobraccio che non abbandona mai i dettagli dell’esistenza. Un vestito, una melodia, un gesto abitudinario costruiscono storie nelle storie della Scotti, portando il lettore in quel territorio di mezzo, fondamentale, che è il sospeso: malinconia, nostalgia, dissoluzione del sentimento… ogni perdita è come se aggiungesse, e questo è il moto cui Francesca tende e verso cui il lettore si interroga: da quelli lenti posso guardarmi dentro? Ecco, ciò che succede è di avere tutti un cuore inesperto che lei ci mostra, dandoci la possibilità di scegliere: continuare nella purezza o scorticarci e capire dove, e come, si può andare al fondo dell’umano .
Alessandro Finucci (Bibliotecario)
Ho ‘incontrato’ la scrittura di Francesca Scotti nel 2011 quando l’editore Marco Monina Monina di peQuod/Italic, in una interessante chiacchierata in Vicolo del Solitario, mi propose la lettura di Qualcosa di simile. Ho sempre apprezzato il serio lavoro di scouting che, da parecchi anni, la dorica Italic compie all’interno di un panorama editoriale difficile e veramente competitivo.
Qualcosa di simile è una raccolta di dieci racconti che lascia piacevolmente sorpresi. Racconti, curiosamente, senza titolo, con una numerazione progressiva come i capitoli di un’unica, composita visione, che toccano temi che poi la giovane Francesca affronta, approfondendoli, anche nei due scritti successivi: le relazioni familiari e interpersonali in genere, il cibo e l’arte culinaria, la malattia mentale, la musica, il Giappone, e in definitiva, l’animo umano nelle sue molteplici sfaccettature.
I motivi a lei cari sono sviluppati con uno stile che diventa, a posteriori, dopo una lettura attenta di L’origine della distanza e Il cuore inesperto, inconfondibile: i dieci racconti di Qualcosa di simile risplendono di un nitore perfetto e la prosa, già in questa prima prova, è precisa, pulita, controllata. Facile è pensare alla bellezza rarefatta di alcuni dei racconti di Yoko Ogawa (che lei tra l’altro ama e come ha dichiarato più volte in diverse interviste).
Anche nella sua seconda prova, L’origine della distanza, Francesca Scotti scrive di relazioni, in questo caso quella sfuggevole che lega Vittoria a Lorenzo, nel modo che le riesce spontaneo. Sceglie parole chiare, accurate, precise (quasi con una precisione chirurgica), senza appesantire, ed è questo uno degli aspetti della sua scrittura che amo di più, le sue storie con inutili spezie o con ingombranti orpelli. Nel libro Vittoria si trova a Tokyo quasi senza averlo deciso, senza neanche volerlo del tutto, e cerca Lorenzo che le ‘sfugge’ di continuo. La ricerca quotidiana che lei compie per incontrarlo la porta a vivere appieno la realtà nella quale viene a trovarsi, fatta di odori, di gesti, di riti e di sapori, ma anche di profonde solitudini. Si immerge in un mondo e in una cultura, quella giapponese, che Francesca conosce molto bene e che riesce a descrivere e a narrare fino a farcene incuriosire. Interessante è il tema degli evaporati cui lei fa riferimento con una delicatezza che disarma (Lorenzo è anche lui un evaporato? Sicuramente non è ad aspettarla a Kyoto, come aveva promesso; non le dice per quanto tempo starà via e i motivi che lo hanno, temporaneamente? definitivamente? allontanato da lei).
Il cuore inesperto, sua ultima e più recente fatica, ci racconta la storia della relazione della giovane Anita con il suo insegnante Gabriele, entrambi violinisti del Conservatorio, entrambi soli. Due solitudini che si incontrano, si incastrano e si scontrano nello svolgimento della storia, ma oltre a questo, come sempre nei libri di Francesca Scotti, c’è il rapporto: quello conflittuale tra madre e figlia, quello imbarazzato e fatto di silenzi tra padre e figlia, quello tenero, impacciato e adolescente tra Anita e il suo amico Ludovico, e quello in equilibrio precario tra Anita e Gabriele.
Temi che Francesca affronta con uno stile pulito, privo di qualsiasi fronzolo, essenziale; storie che racconta con disarmante intensità e straordinaria forza emotiva, convinta che per parlare di rapporti, di sogni, di illusioni, di sentimenti, non c’è bisogno di centinaia e centinaia di pagine e nemmeno di una prosa che non possa essere limpida, misurata ed essenziale. Francesca Scotti ha il “dono di una prosa lieve e dolente come una sonata di Arvo Pärt” che affermava di lavorare con pochissimi elementi (una voce, due voci) e di costruire con i materiali più primitivi (con l’accordo perfetto, con una specifica tonalità). Ecco questo è il motivo che mi spinge a leggere, sempre con grande interesse e indubbio piacere, le storie scritte da Francesca Scotti. Peccato che questa ultima nota è proprio Francesca a scriverla nel suo sito web e non sia frutto delle mie intuizioni e conoscenze, ma come non condividerla?
Giusi Marchetta
Sempre più spesso, ultimamente, mi pongo la questione dei modelli di scrittura per chi, come me, legge tanto. È evidente che a prescindere dai gusti personali si possa essere estimatori allo stesso modo di DeLillo e di Ernaux, di uno stile travolgente e massimalista, come di una paratassi affilata che riesce sempre a dipingere il mondo in modo puntuale e concreto. Questa passione per la lettura che viene nutrita dall’una e l’altra corrente mi porta a domandarmi come si strutturi col tempo il modo di scrivere degli autori giovani, italiani, che come me possono risentire della stessa influenza.
Mi sembra che Francesca una scelta l’abbia fatta e che questa scelta sia stata come una strada imboccata fin dai racconti e mai rinnegata nel suo romanzo Il cuore inesperto. È un passaggio non scontato, dato che la narrazione breve sembra quasi richiedere una scrittura che lasci molto spazio al non detto, mentre tradizionalmente il romanzo potrebbe essere considerato il campo della digressione, un territorio ampio da esplorare sia nella trama che nella forma. Grandi autori classici e moderni hanno rinnegato questo schema semplicistico e mi sembra interessante che anche Francesca abbia riproposto uno stile conciso per il romanzo. Sottrarre ogni orpello stilistico alla successione delle frasi, le ha consentito di presentare la storia di Anita come un percorso lucido, verace, anche crudele a tratti. Non solo però. L’accostamento delle situazioni e dei personaggi che viene solo suggerito al lettore e mai descritto (la madre e le fughe in Giappone/Anita e Gabriele/ Anita e Ludovico) mi ha colpito perché, proprio come nei racconti, o in quella forma ibrida di narrazione che era L’origine della distanza, permette al lettore di costruirsi da solo un’immagine del dolore che avverte tra le righe. La capacità di raccontare anche quello che non viene raccontato è sicuramente un punto di forza per uno scrittore di racconti. Mi lascia sempre ammirata l’autore che riesce a sfruttare questo talento per la storia che ha bisogno di tirare fuori al momento.
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Sei domande a Francesca Scotti
Qual è il tuo rapporto quotidiano con la letteratura?
La letteratura mi permette di immaginare che la nave intravista all’orizzonte sia una nave di pirati, che l’uomo pallido e sottile che incontro sempre al tramonto sia un vampiro e che il cigno altezzoso sullo stagno sia Odette. Fin da bambina le la lettura mi ha nutrita, ha creato un immaginario che, favola dopo favola, romanzo dopo romanzo, ha continuamente arricchito. Mi ha resa curiosa e, per quanto riguarda il quotidiano, riesce a dare un senso alle notti di insonnia!
Dalla tua prima antologia di racconti, Qualcosa di simile, è stato tratto un cortometraggio di 15’ dalla regista Alessandra Pescetta che si è affermato in diversi festival. Ci vuoi dire come è nata l’esperienza e come hai collaborato con la regista? E il cinema quanto è importante per te?
L’esperienza di lavoro con Alessandra Pescetta credo che sia nata innanzitutto dall’affinità. Affinità del sentire e dell’immaginare. Nei suoi lavori ho sempre trovato delle interpretazioni intriganti del mondo, persino in un contesto complicato come quello della pubblicità. Ho incontrato in lei qualcosa che mi assomiglia. Dal punto di vista pratico è stato tutto semplice, le ho affidato le mie storie con la certezza che ne avrebbe estratto l’essenza per farne la sua avventura. E non sbagliavo: ogni volta che guardo il cortometraggio di Qualcosa di simile mi ritrovo e mi smarrisco allo stesso tempo. Da allora non abbiamo smesso di collaborare: ho scritto il con lei soggetto di un suo cortometraggio, Ahlem, che sta riscuotendo un successo straordinario in tutto il mondo e, dal mio racconto La pace di chi ha sete e sta per bere, ha tratto il suo primo film, La città senza notte. Le sono molto grata per queste splendide opportunità. Il cinema ha un’importanza fondamentale, mi aiuta anche con la scrittura: vedere le cose mentre le racconto, tentare di imprimere loro un andamento filmico. E poi mi intrattiene, aspetto da non sottovalutare!
Come valuti l’attuale stato della letteratura italiana?
Riesco solo a dirti che quando entro in libreria mi assale una vertigine: mi pare di aver perso i punti di riferimento e che mi si schianti addosso un’onda che porta con se di tutto, troppo e di scarsa qualità. Per fortuna esistono lettori, scrittori ed editori che resistono. Ma credo siano i primi a poter imprimere un vero cambiamento di rotta.
Vivi sei mesi l’anno in Giappone. Immagino che abbia inciso, e non poco, non solo sulla tua narrativa ma anche sulla tua cultura, sulle tue abitudini, sul taglio e la profondità del tuo sguardo narrativo. Ce ne parleresti?
Un libro come L’origine della distanza, senza la mia vita in Giappone non sarebbe esistito, allo stesso tempo mi rendo conto che anche quando la narrazione si sposta molto lontano dall’arcipelago la sua influenza rimane. Ne Il cuore inesperto, al di là del personaggio della madre di Anita che rappresenta il mondo nipponico (e dunque la distanza) credo che anche la scrittura e le scelte narrative abbiano risentito (spero positivamente) di questa influenza. Vivo in Giappone da più di quatto anni e inizialmente la barriera linguistica era insormontabile. Questo ha avuto la conseguenza negativa dell’isolamento e della solitudine, ma al tempo stesso ha stimolato l’immaginazione, la vista, persino l’olfatto, sensi che mi sono venuti in soccorso in mancanza della parola.
La musica e la letteratura, due tue passioni. Credo che la musicalità della tua prosa debba molto alla tua formazione culturale. C’è stato qualche momento in cui la coesistenza di queste due discipline ti ha creato qualche problema o è stato sempre un connubio felice?
Direi che è stato proprio il momento in cui sono riuscita a farle non solo convivere, ma anche comunicare a rendere felice il connubio. E questo è accaduto con Il cuore inesperto. La musica è intervenuta sia nella scrittura sia nella storia in maniera massiccia e di questo sono davvero contenta. Anche la disciplina che gli anni in conservatorio mi hanno insegnato è stato utile ad affrontare il lavoro, le fatiche e le paure della scrittura.
Cosa c’è in programma?
A settembre sarò ospite al festival di Mantova insieme a Michele Mari: questo appuntamento mi emoziona molto. Sono ancora immersa ne Il cuore inesperto. Ma le idee stanno tornando a muoversi, alcune storie affiorano. Ho voglia di scrivere. Il progetto, al momento, è leggere molto, guardare film, ascoltare musica e racconti. Osservare e sentire.
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Giochi da spiaggia
C’è un istante dell’infanzia nel quale ciascun bambino appare esattamente per ciò che sarà. E’ fugace, difficile da cogliere, si manifesta e svanisce. Si mostra solo per dire il vero.
La madre di Giulia e Tommaso lo aveva già sperimentato un anno prima, guardando il figlio giocare in spiaggia.
Lei, quel pomeriggio di caldo terribile, aveva visto il gioco trasformarsi in profezia: un ometto per bene che contava i soldi dietro al vetro spesso di uno sportello. La camicia stirata, il colletto un po’ storto. Doveva essere lui a fare il bucato. Le mani curate e i denti belli. Sorrideva e contava banconote.
Era sulla spiaggia quel giorno, seduto a gambe incrociate che ordinava conchiglie e legnetti mentre sua sorella Giulia, impaziente, aspettava la sua parte di quel bottino che insieme avevano raccolto. Non erano gemelli ma sembrava che lo fossero. Tommaso, assorto nella sua ripetizione di una vita futura, fingeva di avere davanti a sé qualcosa in grado di proteggerlo e separarlo da tutto. “Devi aspettare il tuo turno” aveva sentenziato per zittire la sorellina lamentosa nell’attesa. Sua madre gli aveva anche visto al polso un orologio bello, forse eccessivamente grosso. Ma davanti a quell’apparizione – nel suo complesso – aveva sorriso.
Era di nuovo estate, erano di nuovo al mare, tutti e tre.
“Mamma posso fare il bagno con la bambola?”
Giulia aveva appena tolto i braccioli.
“Si ma stai a riva e vicina agli altri bambini.”
Era ubbidiente, Giulia.
La madre l’aveva guardata entrare cauta mentre Tommaso si divertiva altrove. Giulia aveva cominciato a parlare alla bambola, a fare piccoli salti all’arrivo di onde quasi invisibili: insegnava alla plastica con la forma di un bebè a muovere le gambe e le braccia.
La solitudine del sole si rifletteva sull’acqua, la sabbia si scaldava emanando l’odore di tutte le estati del mondo. La madre di Giulia sfogliò qualche pagina di un giornale di moda, poi sentì le palpebre pesarle sullo sguardo, i pensieri veloci dell’attimo che precede il sonno.
“Mamma ho freddo”
Era Giulia, una presenza umida e gocciolante al fianco della donna nel dormiveglia. Lei sussultò e svelta prese l’asciugamano, l’avvolse, le baciò i sottili capelli biondi, bagnati e freschi.
Tremava, Giulia.
“E la bambola?” le chiese la madre a un tratto. In effetti non l’aveva più. Non era nemmeno lì intorno, sulla sabbia. Nemmeno accanto a Tommaso.
Ma prima che la bimba potesse risponderle, mentre ancora la stringeva a sé, quell’istante, quello della visione, la raggiunse. E così la donna vide tutto. Tutto quanto.
Le si serrarono i denti, un brivido le scosse le spalle. Allora chiuse gli occhi anche se non sarebbe servito a nulla e lo sapeva.
“La bambola?” ripeté Giulia come senza pensarci davvero.
Sua madre tratteneva il fiato e la piccola dovette accorgersene perché per un attimo cercò di divincolarsi dall’abbraccio che la stringeva di più.
“Tanto il mare riporta tutto a riva, no?” disse Giulia a sua madre, affondando gli occhi – per un attimo adulti – nei suoi.
Allora la donna, indebolita, aprì le braccia, e lasciò che Giulia corresse via.