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Francesca Serafini anteprima. Tre madri

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Francesca Serafini è una sceneggiatrice, anche.

Dopo tanti progetti importanti per il cinema e la televisione come Non essere cattivo – del maestro Caligarifilm dell’anno ai Nastri d’argento nel 2016 e candidato italiano agli Oscar; o come Principe libero, il famoso biopic su Fabrizio De André, di cui ha scritto la sceneggiatura insieme a Giordano Meacci, ha finalmente deciso di misurarsi con la forma Romanzo.

Tre madri, edito da La nave di Teseo, è il suo primo romanzo, che arriva oggi in libreria. Il che è strano da dire per una scrittrice comeFrancesca Serafini, con il suo talento, la sua storia. Questo non è un libro d’esordio, ma una felice deviazione.La sensazione che si avverte, leggendo, è che sia stato meditato a lungo, atteso, come restando a fissare il fiume che scorre, attenti alle storie che porta. In primo luogo lo stile. Francesca Serafini è una linguista, principalmente. Ha scritto saggi sull’argomento. Ogni singola parola sembra scelta, levigata, tenuta tra le mani. Protetta. Per questo, la sua prosa risulta di una ricercatezza opulenta, che non vuole arrendersi alle mode di genere, al minimalismo.

Tre madri è un giallo, certamente; la protagonista, Lisa Mancini, è un commissario ma qui siamo di fronte a un’opera letteraria più ampia, in cui il paesaggio, la “Località” di Montezenta, non fanno solo da sfondo ma diventano l’occasione per trasportare il lettore dentro una comunità misteriosa, che trasforma gli scarti in arte.

River è scomparso – si apprende – tutti lo amavano ma qualcosa ci sfugge. Qualcosa a cui non si riesce a dare un nome, che scuote Lisa dal suo torpore e la costringe ad attraversare il fiume limaccioso di un passato su cui aleggiano dilemmi come avvoltoi. Sarà bello seguirla, starle vicino, innamorarsi di lei.

Pierangelo Consoli

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Di là dal fiume e tra gli alberi del bosco alto, nei giorni di libeccio, quando dalla ferriera antica il fumo si abbassa fino alla foschia del primo mattino, il profilo medievale di Montezenta si distingue appena, tutto avvolto da una nebbia in cui la natura e le sue insidie si allacciano per consegnare alla vista la definizione opaca di un’ecografia prenatale. Eppure, come in quel nero traslucido le famiglie in attesa si contendono il primato delle somiglianze, così Tonio, il custode della fonderia, anche in giorni come questi sa riconoscere a uno a uno i tetti rossi del paese, mandando a memoria il panorama lungo il tragitto che da trentasei anni lo riporta a casa da sua madre, quando smonta il turno e non c’è il vento a offuscargli i pensieri. Anche questa mattina, e’ Gramet – è così che lo chiamano in paese, per via della figura alta e magrissima – percorre la strada trascinando il carretto con gli scarti dello stabilimento: trucioli della lavorazione al tornio, perlopiù, e un paio dei pezzi più grandi che gli operai, quando possono, di nascosto mettono da parte per lui. Gli varranno qualche euro non appena, superato il bosco alto, nei pressi del ponte sul fiume, riuscirà a raggiungere Ca de Falùg.

Quando arriva, il piccolo accampamento di roulotte e di prefabbricati sembra ancora addormentato. Lo domina, dall’alto, la scultura in lamiera della testa – enorme – di un bambino: metà in acciaio e metà in rame, gli occhi verdi di vetro, fissi, e un vuoto squadrato che sprofonda dal labbro superiore a rappresentare la disperazione di un grido che ha strappato via il mento. A guardarlo ora, nel silenzio della valle, Tonio si sente immediatamente fragile e sperduto, anche se non sa capire perché (non è la prima volta che lo vede ma non ha mai provato niente del genere): quel tipo di inconsapevolezza che è insieme – il più delle volte – il rifugio dalla paura e ciò che la alimenta. Secondo l’inclinazione del suo carattere, però, lo smarrimento di Tonio dura solo qualche istante. Poi prevale in lui l’impazienza: si guarda intorno circospetto, anche se non ci sono segni di presenza viva. Allora valuta l’opportunità di fare rumore per richiamare attenzione, sperando in questo modo di accelerare le operazioni di scambio. Ma nel conto delle sue ruminazioni finisce per avere un peso decisivo il rischio di essere notato, piuttosto, da qualcuno del paese che si trovi a passare di lì, tant’è che si arrende a una più cauta inerzia. Fino a quando – ormai sul punto di andarsene – in lontananza, nei pressi del suo container, vede comparire Aimee: scarmigliata e bellissima.

È scalza, nonostante la temperatura abbia da poco superato lo zero; il corpo snello e aggraziato coperto solo da una specie di sottana grigia che a distanza ravvicinata si rivela per quello che è: una canottiera più ampia di almeno un paio di misure che in passato Tonio ha già visto indosso al suo uomo, Victor. In genere ci pensa lui a prendere in consegna i suoi scarti, ma – gli spiega Aimee, vedendolo sorpreso per la sostituzione – è partito la sera prima per un sopralluogo. Mentre parla, Aimee si accorge che Tonio non la segue più. Di nuovo preoccupato dal pensiero che qualcuno possa vederlo lì, spinge verso la donna la cassetta con i frammenti di metallo perché ne possa stabilire il prezzo. Aimee si adegua: controlla rapidamente che il bottino sia in linea con gli altri giorni e poi gli passa la banconota da dieci euro che teneva arrotolata nel pugno. Un cenno di saluto e si china per recuperare il materiale che nel frattempo Tonio ha sistemato a terra. E qui la bretella destra della canottiera si allarga sulla spalla, lasciando intravedere un piercing sulla punta del seno irrigidita dal freddo che immediatamente attrae lo sguardo di Tonio. Aimee si copre, d’istinto, con uno scatto che rivela un disagio non previsto.

Eh… – fa Tonio, minimizzando la reazione. Gli orecchini vanno all’orecchio, pensa: mica se le inventano a caso le parole… Se te lo metti lì è perché vuoi che qualcuno lo veda: e allora di cosa ti vergogni, poi mo’? Fata roba!, borbotta tra sé rimettendosi in cammino: evidentemente sfuggendo alla sua comprensione – chissà se in assoluto o nella circostanza – il concetto di scelta (e di scelta volta per volta, poi): e questo, con buona probabilità, perché, da quando è nato, e su quasi tutto quello che lo riguarda, è un diritto che si è arrogata per lui sua madre Edda. A questo punto – mi rendo conto – dovrei scandagliare più in profondità la natura del loro legame, anche per capire che ruolo abbia nel condizionare le ambiguità del comportamento di Tonio a Ca de Falùg (e, in generale, tutta la sua vita). Dovrei anche raccontare come è nato il nome di questa piccola frazione di Montezenta, ormai accettato anche dalla burocrazia amministrativa con la dicitura tecnica di “Località”; e poi ripercorrere la sua storia e il suo rapporto col resto degli abitanti del paese, che intanto si stanno mettendo in moto per cominciare una giornata apparentemente uguale a tante altre.

Prima, però, è tempo di conoscere Lisa.

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