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Francesca Violi anteprima. L’abbaglio

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Melissa lavora all’asilo nel bosco della Fonte, centro olistico fondato da Veronica, sua maestra e modello. Il carisma della donna ha spinto Melissa a sposarne la visione del mondo, tanto che quando il padre si ammala di cancro lo convince ad affidarsi alle cure di un medico alternativo. Ma il padre muore. Melissa prova a negare la realtà finché non è costretta ad ammettere il tragico abbaglio di cui è stata vittima, ed è travolta dalla colpa, dal crollo dei valori e soprattutto dal tradimento di Veronica, che ritiene responsabile ultima.

Dopo il fortunato esordio di Sulla riva, Francesca Violi torna in libreria con L’abbaglio, pubblicato da Elliot, intenso noir in cui carnefici e vittime sono ruoli che man mano si adattano ai vari personaggi, prigionieri di una storia di auto-inganni. Attraverso un abile gioco di specchi assistiamo alla metamorfosi della protagonista: da manipolata a manipolatrice, Melissa dovrà fare i conti con le proprie emozioni più oscure.

Lavinia Emberti

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Di colpo sentì freddo e si accorse che la luce si era fatta grigia e fioca. Una nuvola doveva aver coperto il sole, e sotto gli alberi era calato questo crepuscolo precoce.

Alcuni dei ceppi che fungevano da sgabelli erano ribaltati e Melissa li raddrizzò, quindi radunò su un vassoio le tazze di metallo smaltato che erano rimaste sui tavolini. Di solito apprezzava questi minuti da sola: dopo aver cucinato e servito il pranzo ai bambini, e dopo tre ore passate ad aiutare l’educatrice di turno con quelle sedici piccole macchine da confusione, accoglieva sempre con piacere la fine dell’orario. Mentre l’altra conduceva i bimbi al parcheggio dove i genitori venivano a ritirarli, lei si godeva la quiete del bosco, portando a termine gli ultimi, semplici compiti della giornata lavorativa.

Oggi però ogni cosa le sembrava opaca. Avrebbe avuto bisogno di una seduta di Attivazione Energetica, ma Veronica era talmente indaffarata che non era il caso di disturbarla. Contò le tazze sul vassoio. Erano solo quindici. Dopo aver guardato dietro il tronco caduto su cui i bambini amavano stare a cavalcioni, Melissa si rassegnò a mettersi a quattro zampe per scrutare sotto la yurta: questa era montata su di una pedana, in modo da tenerla sollevata dal terreno irregolare, e quell’intercapedine sembrava attirare gli oggetti come un buco nero. Infatti: nell’ombra fitta biancheggiava la tazza mancante.

«Ce l’hai portata tu?» borbottò.

Kilian, sdraiato sul ventre a poca distanza dalla tazza, agitò la coda bionda. Lo spazio sotto la pedana era uno dei suoi posti preferiti. Era un cane socievole, ma non più giovane, e a volte la frenesia dei bambini diventava troppa per lui. Dopo aver recuperato la tazza Melissa si apprestò a salire al lavatoio, come chiamavano il piccolo edificio che ospitava i bagni.

«Vieni con me?».

Il cane non si mosse.

«Pigrone».

Melissa uscì nella radura; passando accanto all’orto biodinamico controllò che il cancelletto fosse chiuso e per terra, tra l’erba, scorse un piccolo rastrello, di quelli usati dai bambini. Tenendo in equilibrio il vassoio raccolse l’attrezzo, se lo infilò nella tasca posteriore dei pantaloni e riprese il cammino. Il lavatoio, in cima alla radura, distava dalla yurta meno di cento metri, ma il sentiero quel giorno sembrava più ripido.

Finalmente raggiunse la piccola costruzione. Il ripostiglio degli attrezzi era sul retro e quando lei cercò di aprirne la porta il chiavistello fece resistenza. Melissa sospirò. Doveva ricordare a Stephan di sistemarlo, pensò tirando il catenaccio finché non riuscì a smuoverlo. Le porte di quella struttura davano sempre problemi. Il legno è un materiale vivo, diceva Stephan, e lei immaginava che le travi, i telai, i battenti sentissero il richiamo del bosco e si facessero inquieti, riluttanti ai cardini e alle viti, desiderosi di ricongiungersi con il loro luogo d’origine.

Riposto finalmente il rastrello andò al locale principale. Qui ogni cosa era a misura di bambino, tranne un gabinetto e un lavello ad altezza normale. Nella luce che entrava dal finestrone Melissa lavò le tazze e le dispose a scolare. Uno degli asciugamani dei bimbi era sul pavimento: lo tirò su e lo appese al gancio da cui era caduto. In un angolo c’erano tre foglie secche. Più tardi sarebbe passata Olena a pulire, ma lei le raccolse comunque. Foglie di leccio.

Si chiuse la porta alle spalle e uscì nella radura. Si era alzato il vento, l’erba fremeva e la collina era tutto un sospiro, uno scuotersi di alberi. Aprì la mano, lasciò andare le foglie, e il vento le portò via.

Tornò alla yurta. Le decorazioni fabbricate dai bambini, grappoli di rametti e pigne e piume, appese agli alberi intorno, si agitavano ticchettando e chioccolando. Il Nido, una delle sculture di Stephan, un enorme bozzolo di ramoscelli aggrappato al tronco di un faggio, gemette piano.

Per un attimo Melissa immaginò di entrare nella grande tenda, spargere sul tavolato i cuscini che i piccoli usavano per la nanna, distendersi su quel soffice strato e dormire lì fino al giorno dopo, cullata dal respiro del bosco. Scosse la testa.

«Dai, Kilian, andiamo».

Il cane, pronto per il ritorno, la aspettava seduto accanto al cartello.

Qui non è vietato correre, qui non è vietato saltare,
qui non è vietato giocare,
qui non è vietato sporcarsi.


Con la sua docilità di animale anziano Kilian la seguì sul sentiero che conduceva al parcheggio. Quando uscirono dal bosco la luce del sole li investì, mentre la nuvola che per qualche minuto l’aveva coperto trascinava la sua immensa ombra verso Nord, sulla pianura. Abbacinata, Melissa sbatté le palpebre.

In fondo allo spiazzo, tra la sua macchina e il noce, l’aspettava Veronica. L’aria le gonfiava la tunica rossa in onde morbide, ma la treccia color ferro che le scendeva fino alle reni, grossa e pesante, dondolava appena. Melissa immaginò che volesse parlarle del menù della settimana seguente: sapeva che una mamma si era lamentata della quinoa, che secondo lei non era ecosostenibile.

Veronica la sentì arrivare e si voltò. Il suo bel volto largo e abbronzato si aprì in un sorriso, ma una volta che Melissa le fu vicina, si fece seria. Le prese una mano tra le sue, nel gesto che le era tipico, e la fissò negli occhi. Aveva occhi particolari, Veronica: di primo acchito li si sarebbe detti azzurri, ma intorno alle pupille avevano un’areola dorata, un sole. E non a caso, pensava Melissa. Veronica era proprio come un sole, il cuore d’energia e il centro di gravità della Fonte e di quel che le ruotava attorno.

«Melissa. Mi dispiace di non poter venire domani, ma il seminario era fissato da mesi».

Lei annuì. In fondo era sollevata che Veronica non partecipasse alla commemorazione. Immaginarla in mezzo ai propri familiari la metteva a disagio. Immaginarla parlare con Daria! Al pensiero le si strinse lo stomaco.

Poi si ritrovò avvolta dalle braccia muscolose di lei, nel suo profumo speziato.

«Il tuo papà è Luce» sussurrò Veronica.

Melissa si lasciò andare all’abbraccio. Come spremuta fuori da quella stretta, una grossa lacrima le traboccò dall’angolo dell’occhio.

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