“Guerra”, la parola peggiore. Non ci si abitua mai e tocca scriverne, sempre, ciclicamente, per non dimenticare, per riportare alla memoria un male da cui non riusciamo a prendere le distanze. Nemmeno oggi, i fatti di questi giorni ne sono l’ennesima testimonianza. Il conflitto è una costante della nostra vita. Quante penne ormai si sono cimentate nell’argomento e quante ancora lo faranno, parlare di guerra ambendo all’originalità oggi pare una cosa impossibile, ma parlare di guerra risultando credibili, è altrettanto ostico, specie se sei giovane, specie se sei esordiente, perché maneggiare la guerra è un affare da penne affermate, non si può partire da una cosa tanto grande. Invece Francesca spiazza tutti.
Classe ‘82, bellunese, Francesca approda alla forma romanzo dopo svariate apparizioni su riviste letterarie e contest di racconti con una storia dalle fondamenta solidissime e uno stile che tutto contiene tranne le asprezze di un esordiente.
Dove qualcosa manca è un romanzo dallo stampo classico, rodato sia nella voce che nel modo di affrontare la vicenda ma che contiene al suo interno anche il sentore di un entusiasmo genuino, una determinazione consapevole nel saper utilizzare al meglio la magia della parola scritta.
La storia si svolge nella zona delle Prealpi venete, Caterina e Pietro gestiscono un emporio costruito in quello stesso paese dove quattordici anni prima si era consumato uno scontro che ne aveva minato le esistenze, impegnati tra le fila partigiane della Resistenza, pronti a nascondere soldati nelle proprie abitazioni mentre i tedeschi occupavano i loro cortili.
La narrazione si alterna tra il ’44 e il ’58, dopo la comparsa di Matthias Rubl, ex tenente della Wehrmacht in pensione, tornato in paese con una Leica appesa al collo e un bagaglio di scomodi segreti destinati a mettere in crisi la routine all’emporio della coppia.
Lasciando al lettore il piacere di scoprire il filo di una matassa che si srotola senza fretta, lungo una serie di vicende che alternano passato e presente dei personaggi, quello che colpisce maggiormente dell’opera di Francesca è l’attenta ricostruzione storica delle ambientazioni: a partire dall’emporio, passando per l’abitazione dei personaggi e le vie del paese a mezza costa, il mondo imbastito dalla scrittrice risulta credibile e ricostruito nei minimi dettagli pur senza scadere in noiose didascalie. Le voci di Caterina e Pietro, ancor più dei comprimari che animano le strade del paese sono il frutto di un attento studio del dialetto locale e delle espressioni gergali tipiche dell’epoca storica in cui è ambientato il tutto. Sono gli anni della ricostruzione, della ripresa economica, anni di volontà e tentativi di reinventarsi rimarginando le ferite di un conflitto ancora fresco ma sono anche gli anni di una concezione sociale della famiglia e soprattutto della figura femminile che rimandano al patriarcato più radicato. Famiglie legate a una terra di usanze e religione in cui spesso la verità più scomoda resta sepolta sotto strati di terra e tradizioni ed è interessante notare quanto sia stata abile l’autrice nel rimestare tematiche tanto conosciute senza scadere nella facile retorica. Di questo mondo già tanto ci è stato detto e tanto ci è stato raccontato ma Francesca si gioca la carta dell’empatia, della narrazione schietta, raccontandoci una storia di persone vere, persone in cui possiamo riconoscere un nonno, un parente, un compagno e la voglia di tornare su queste pagine attinge dallo stessa suggestione che si prova mettendo piede in una bottega di provincia, con l’odore del pane appena sfornato e una stecca di liquirizia tra i denti. Cose semplici, cose destinate a restare.
Stefano Bonazzi