“Plateatico o muerte!” è il grido di battaglia. Sorpresi, eh? Che c’entrerà mai un plateatico con Guglielmo Oberdan, il martire irredentista triestino? C’entra invece, perché nel libro di G.O. non c’è traccia, ve n’è invece molta dell’Oberdan – nome proprio, né cognome né soprannome/nome da alter-ego eroico – titolare dell’Osteria “La Bionda” (nomen omen pure questo?) che non ci sta più. Non sopporta di essere l’ultima ruota del carro, massimo la penultima, di doversi accontentare delle briciole – degli avanzi, quando va un po’ meglio – dei potenti, di quelli che possono. Decide quindi, coadiuvato da certi suoi amici e conoscenti dai pochi scrupoli (ma non propriamente senza, tipo quelli che stanno al vertice della piramide del potere locale) di iniziare a pretendere anche lui qualcosa, di abbassarsi al “dare per avere in cambio” per innalzarsi un po’ di livello, ma per la società, non in senso morale, dal momento che egli sempre terrà scissi – nella sua mente, nel suo cuore – questi ambiti, ma ben presto, il suo desiderio di mantenersi comunque “puro” nonostante le frequentazioni iniziate per non stare più confinato alla base della famosa piramide si rivelerà pressoché irrealizzabile.
Che poi, l’oste scaturito dalla fantasia di Francesco Berni, autore viterbese poco più che trentenne, non si può certo dire sia un egoista a tutto tondo: certo, i suoi ragionamenti iniziali – riportati dall’autore in prima persona – a livello di gestazione sembrerebbero proprio essere tali, ma ci si renderà presto conto che è un egoismo (tra l’altro, nemmeno tratto suo a livello caratteriale, bensì obbligato per necessità di sopravvivenza) “collettivo”, esteso cioè anche in favore dei dipendenti della sua osteria. Oberdan nei loro confronti sente di avere dei doveri, come un buon paterfamilias di latina tradizione: li deve preservare da ogni pericolo, gli stanno simpatici (chi molto di più, chi assai di meno) non vuole che perdano il lavoro, in fondo sono la sua famiglia.
Non può mancare in questa favola né triste né allegra, bensì sfumata, come tutte le umane cose (e di umanità se ne trova della più varia a mangiare, piluccare e trincare all’Osteria “La Bionda”) un antagonista: un assessore comunale dal cognome amazzonico che ritiene il territorio di provincia ove sorge il locale di Oberdan cosa propria. Già il nostro oste – per motivi differenti – se la deve vedere, indirettamente o meno, col cognato e col nipote di questo potente, ma quando la Giunta Comunale emana un’ordinanza di chiusura anticipata per i locali pubblici, dopo che gli uffici competenti avevano già bocciato diverse volte al nostro la richiesta di strutturare un plateatico all’esterno dell’osteria per aggiungere qualche possibilità di avventori in più almeno nei mesi caldi, decide che basta!
Inizierà dunque per Oberdan si lamentava (edizioni Dialoghi, Viterbo 2020) una discesa nei bassi della politica paesana becera magari ma al contempo viva – che fa sentire vivi o almeno ne dà l’illusione – e comunque mai vissuta seriamente fino in fondo, ma con quell’ironia grassa propria del confine tra sentimento primo e secondo- repubblicano più alcune incursioni nello stile Terza Repubblica (sempre sia mai iniziata) e con sottofondi musicali darkwave e synthpop, hardcore punk e di MYSS KETA , “la migliore figura pop d’avanguardia partorita nell’ultimo decennio” a dire del protagonista, e probabilmente anche dell’autore. Dunque, tra un padre idealista che ha fatto il ’77 con la sua allora fidanzata, ora madre di Oberdan, che lo sconsiglia, il suo ex docente di Filosofia al liceo che lo mette in guardia ma in fondo lo appoggia e un amico agronomo somalo che lo sprona del tutto, il nostre oste accetta di “lavorare” per alcuni di quelli che stanno sì ai vertici della solita piramide ma hanno un qualcosa in comune con lui: sono arcinemici dell’assessore dal nome di famiglia sudamericano.
Oberdan porta a termine la sua mansione, da buon soldato semplice che aspira ad elevarsi di grado, ma ben presto un ennesimo ostacolo sembra frapporsi tra lui e la volontà di veramente entrare a far parte del gruppo di “quelli”. Un altro motivo per cui non trova altro da fare che lamentarsi (sintomo di inettitudine cronica o magari solo un modo per dirsi: “No, io non sono davvero così, sono il bravo ragazzo di sempre”?) e non si tratta di questioni di donne, annose per il nostro fin dagli anni universitari e anche da prima ma che, dopo essere prima migliorate e poi nuovamente peggiorate, sembrerebbero trovare finalmente la pace in una luce – bionda – in fondo al tunnel di una disperazione curata con l’immoralità.
Un romanzo non oscillante tra il bene e il male, ma tra il peggio e il meno peggio: sta ad Oberdan, nonostante i lamenti e nonostante si renda conto benissimo che la scelta non sia delle ottimali, decidere da che parte porsi tra il sopravvivere (non ci arrischiamo certo a definirlo vivere) e il soccombere. E chissà in quanti si sono trovati, si trovano e troveranno ancora alle prese con una scelta così crudamente faziosa.
Alberto De Marchi