Il grande scrittore argentino Ricardo Piglia ha osservato che la macchina e il romanzo hanno conosciuto il loro sviluppo nello stesso periodo.
Entrambe sono invenzioni che tracciano i confini della modernità, cambiando il modo di concepire lo spazio fisico e quello del destino.
Entrambe le invenzioni hanno in comune una struttura solida e ampiamente ragionata: da una parte gli ingranaggi e, dall’altra, i personaggi. Tutto ha uno scopo al fine del funzionamento. Entrambe obbediscono a delle leggi della fisica e della fantasia.
Procedendo lungo questo parallelismo curioso, mi sono chiesto che macchina dovrebbe essere Storia delle mie ossa, ultimo libro di Francesco Leto, edito da Mondadori.
Se fosse una macchina, ho concluso, questa di Leto sarebbe una macchina spara bolle che obbedisce a leggi Patafisiche, come quelle stravaganti, bellissime e tremendamente inutili che Boris Vian inventava ne La schiuma dei giorni.
Un congegno, questo, che pare sempre sul punto d’incepparsi, di smettere di essere eppure continua a generare meraviglia.
Dovrebbe essere una biografia, un racconto molto personale, ma è talmente impastato con la fantasia, talmente colorato, che il protagonista ci appare come una metafora. Il narratore è un bambino ostrica, una di quelle creature solitarie che nascondono un gioiello. Accudito da donne stravaganti e ossessionate, diventa uomo cercando l’amore e cominciando a viaggiare.
Il risultato è un misto tra Gregory Roberts e Zsa Zsa Gábor: un avventuriero con i guanti amarena.
Pierangelo Consoli
Le notizie sulla famiglia della Rossa sono sempre state alquanto vaghe, persino per me. Di lei so solo che ha vissuto in Svizzera e che da piccola ha perso suo padre o forse non l’ha mai conosciuto. Ha trascorso l’adolescenza in diversi collegi passando il tempo a riempire il suo diario di poesie esistenzialiste e alquanto dark, finché all’età di diciotto anni ha conosciuto mio padre e ritrovato grazie a lui la luce. Ma persino quell’incontro è avvolto da un alone di mistero.
La versione ufficiale è che si trovasse in vacanza a Roma in compagnia di alcune amiche. Pernottava in un grazioso appartamento a Trastevere di cui la vecchia proprietaria fittava le camere. Mio padre – nella capitale per supposti obblighi di leva – l’avrebbe incontrata per caso sulle scale dello stesso palazzo dove lui, in libera uscita, avrebbe preso una camera nell’appartamento al piano inferiore. Non s’erano neanche presentati che la Rossa gli avrebbe chiesto la cortesia di riparare il vecchio televisore del salone. Era rimasto a lungo a trafficare coi fili dell’antenna e poi col telecomando, per staccare infine la spina e caricarsi il televisore in braccio. Le aveva fatto cenno di seguirlo. Mentre attraversavano non so quale ponte, lui l’avrebbe guardata dritta negli occhi e poi lanciato il televisore nel fiume.
Pare che lei si sia innamorata in quel preciso istante perché, prima di lui, nessun uomo era stato capace di un gesto così tenero e anarchico. Non so se l’abbia seguito una volta finito il militare o se abbiano coltivato per un po’ a distanza la loro relazione.
Dacché la conosco, l’ho sempre vista piroettare nella stessa casa e dare lezioni di francese. All’inizio lo parlava con un leggero accento svizzero-tedesco, e il tedesco con la morbidezza canterina dell’italiano. Forse aveva abitato in tutti i cantoni, ecco spiegata la contaminazione fonetica. Ma è
curioso soprattutto che l’italiano fosse imbastardito da certe aspirate che definirei andaluse e che, nel tempo, si sono impastate a certe inflessioni direttamente acquisite dalla Pungolatrice.
Per mettermi al mondo, la Rossa per poco non ci lasciava le penne.
Durante la gravidanza aveva messo su giusto qualche chilo e la rotondità del ventre si era fatta notare solo dal sesto mese in poi. Da quel momento aveva iniziato a indossare i pullover di mio padre. Nessuno avrebbe potuto indovinare alcuna speciale attesa. In quei mesi, indifferente ai segnali del proprio corpo, si intratteneva in estenuanti attività fisiche. Dopo aver visto tutte le videocassette di Jane Fonda, s’era messa in testa di voler diventare un’insegnante di aerobica. Passava tutto il tempo a mettere a punto macchinosi esercizi che lei stessa diceva d’aver inventato. Si trattava di imprecisi passi di danza classica che trasformava in altrettanti strambi movimenti a corpo libero: un saltello a gambe divaricate per passare in arabesque, una gamba en air all’indietro e le braccia tese in avanti per atterrare en coquillage, ossia chiudendosi a riccio con le braccia all’indietro lungo le cosce. Mi avrebbe mostrato questa personalissima variazione dieci mesi più tardi, per invogliarmi a muovere i primi passi. Io imparai solo a ripetere coquillage.
Nacqui in piena estate e nel giardino della Rossa erano sbocciate delle rose Bijou d’or che fecero in tempo a sfiorire nelle settimane successive. La palma, che piantò con l’aiuto di Euridice, iniziò a mettere radici all’indomani del parto.
Quando entrò in travaglio, fu la Pungolatrice a annunciarle che non si trattava di una contrazione come un’altra ma era arrivato il momento. Mio padre, sempre fuori per lavoro, le aveva chiesto di occuparsene in sua assenza, temendo per le intrepide invenzioni della moglie. Il che significava per la Pungolatrice tener chiuso per metà giornata il suo bazar. Accettò a fronte di una somma forfettaria che le veniva versata ogni mese. Ma considerato che il bazar era attaccato a casa nostra, lasciava un cartello che informava i clienti di rivolgersi alla porta accanto. Perciò Euridice veniva spesso lasciata sotto la custodia della Rossa, alla quale aveva iniziato a insegnare le prime parole di spagnolo e che utilizzava come cavia per le sue sessioni di fitness. Ancora oggi se sente pronunciare
vamos si mette subito in seconda posizione e inizia a saltellare scomposta.
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Francesco Leto, Storia delle mie ossa, Mondadori, 2022, pp. 168, euro 19.