Se tifo Milan – quindi – è colpa del nonno. Materno. Fu lui il primo a portarmi allo stadio. Fuori da San Siro pronunciava venti parole al giorno, e per me era definito da quel che beveva. Durante i pasti solo vino. «L’acqua arrugginisce.» Per colazione: caffè allungato dal rubinetto, come alle sei di mattina dei suoi vent’anni, prima di saltare in bicicletta e attraversare la città fino alle officine dell’Alfa Romeo, ché ad aspettare si raffreddasse la tazza faceva tardi in fabbrica. Nel ’45, da staffetta partigiana: la sua stessa piscia, per non crepare di sete quando lo misero in galera. Era tra le poche storie che raccontava, e mia nonna si arrabbiava sempre se lo faceva a tavola. Ma lui se ne fregava. «E com’è la piscia?» posavo la forchetta. La nonna si arrabbiava ancora di più. «Mangia,» indicava il piatto lui. «Salata.»
Secondo la teoria junghiana, la maggior parte degli eventi sincronici che avvengono nelle nostre vite figurano un segnale per indicarci la strada giusta da percorrere – o quella da evitare, aggiungerei. E non è un caso che Francesco Negri (Milano, 1994) abbia esordito con Ultimo Stadio (Transeuropa, 286 pagine) proprio sul finire del 2020, l’anno che verrà ricordato nei volumi di storia come quello del lockdown nazionale, della Zona Rossa, delle mascherine anti-Covid e del metro e mezzo di distanza di sicurezza. Un romanzo in movimento come un organismo pluricellulare, ricco di spore che si riproducono sotto lo sguardo ossessionato del lettore, per generare nuove intuizioni, nuove decomposizioni chimiche attraverso le quali il terreno della narrazione si spacca senza tregua in ulteriori e inedite voragini esistenziali, per poi riprendere a scorrere sotto forma di sangue sorrisi lacrime flashback e muffe commestibili come quelle che compongono il roquefort – anzi, meglio il gorgonzola, per rimanere in ambito milanese.
La millennial/net generation di Tommaso Scotti, protagonista insieme a Icce e Ahmed, qui trova il suo contrassegno letterario, il marchio della contromarca Y tatuato dietro la nuca della passata X: quaquaraquà che puzzava ancora di Novecento. Secolo scavalcato dall’autore con una pirouette a regola d’arte mentre tiene una paglia tra i denti e una compressa di Citalopram nella mano stretta a pugno. Nulla sarà come prima. Prima del 2020, per quanto riguarda la demonizzazione che hanno subìto atti naturali come abbracciare e baciare, e di Ultimo Stadio, per quanto riguarda il ruolo dello scrittore contemporaneo e la salvaguardia della civiltà del libro in Italia. Qui parliamo di uno spartiacque bello e buono; il passaggio del mar Rosso, anziché biblico, letterario. Perché tra le ambizioni dell’autore c’è quella di far centro nel cuore stesso della letteratura; la linea di tiro è il suo utilizzo a dir poco ingegnoso del sampling.
In meno di trecento pagine, Francesco Negri – anche nel cognome si cela il germe del politically incorrect – è riuscito ad annientare ogni brandello semivivo di sovranità ontologica (ahimè tuttora in voga) del narratore onnisciente, immolandosi nelle arterie del proprio rendiconto cronachistico fino a pervenire al nucleo pulsante della veridicità/drammaticità dei rapporti interpersonali nell’epoca che stiamo vivendo – tutti, giovani e vecchi. I dialoghi, contaminati col gergale e con un nichilismo a tratti pessimistico che non cerca alcuna consolazione, sono un modello compiuto della sua attualità, certe volte spiazzante, altre ancora capace di far deviare di sana pianta l’attenzione dal fulcro della storia – nella stessa misura in cui i bombardamenti quotidiani dei social media riescono a farci perdere la dimensione di ciò che pensiamo di essere e di quel che vorremmo dalla nostra vita.
Tommaso, Icce e Ahmed sono personaggi inafferrabili, troppo ambigui per poter essere catalogati in stereotipi bonariamente precostituiti. Le loro azioni, i pensieri, i fattori stimolanti che li spingono ad agire in un verso anziché in un altro, strabordano di sfaccettature antropiche. Si muovono in maglie narrative di nitrocellulosa, procedono al fulmicotone nella violenza irruente del loro habitat cementato. Sono entità selvagge che usano le reti di alimentazione elettrica come liane per balzare da un grattacielo all’altro. Sono quello che vedono attraverso i filamenti polimerici della fibra ottica. Non sono mai nati, si sono connessi. Le loro sinapsi, collegamenti informatici sia a livello locale che planetario. I loro bisogni corporei hanno tasti bianchi e neri come una console PS5. I rapporti sessuali vengono consumati in partite di Cash Game.
Il Re allarga le braccia.
Ieri sera abbiamo deciso di non ucciderlo. Il piano originale era quello: se non ci avesse denunciato per dieci giorni saremmo stati noi a farlo fuori. Forse a lui nemmeno sarebbe dispiaciuto. Ma abbiamo lasciato scegliere al caso – a una partita di scopone scientifico – e lui e Ahmed hanno vinto ventiquattro a diciassette. Così abbiamo rubato una gallina dal casolare più vicino e le ho sparato al centro del nostro cortile. Nonostante un proiettile in corpo ha continuato a strisciare nella polvere per venti secondi buoni, ruotando come un compasso attorno al centro sanguinante della gola. Poi le ho appoggiato la canna dietro la nuca e ho fatto fuoco. Tutto ciò che avesse mai visto o sognato è esploso in una nube di goccioline rossastre.
Francesco Negri riesce a riprodurre il melting pot dell’area metropolitana di Milano con una trasparenza senza eguali: una bolla sociale che sta gonfiandosi fino a convertirsi in una reazione esplosiva ineluttabile. L’onda dei temi affrontati, che si combinano con occorrenza a terminologie tecniche, politiche, sportive, militari, musicali, pubblicitarie – e abbreviature atte a rendere Ultimo Stadio non solo un romanzo, ma un mini dizionario del linguaggio parlato nel XXI secolo –, trova sostegno su basi metriche a volte freestyle e ritmi sincopati da drum machine. La vita di strada, il disagio giovanile, la criminalità e la droga – insomma, tutte le tematiche che stanno a cuore ai fruitori di rap, hip hop e sottogeneri – convergono in un’unica necessità, a mio avviso lampante: dare voce a coloro che sono stati messi a tacere dalla “società della forma”, che prima ha provato a plasmarli a sua immagine e somiglianza, poi li ha risputati negli angoli di penombra illuminati da uno schermo huawei, dall’altro capo dello smartphone e dei suoi sensori di prossimità.
L’autore non ha un profilo Facebook, non vuole spiegarci le sue motivazioni, tantomeno ubbidire alle aspettative del mercato librario odierno; in questa zona il mainstream è solo un grigio ricordo. Il giovane Negri dà libertà assoluta al lettore di eseguire una perlustrazione nella swamp generazionale in cui affoga il testo. Pare chiederci un’unica cosa: di lasciarci ingannare dallo spostamento degli accenti ritmici nella sua sincope, o dal piano prospettico di un ragazzo che sa quel che dice perché lo vive sulla propria pelle ogni giorno. Nient’altro.
Ultimo stadio è una legittima unione tra cronaca sociale e fantasia visionaria. Si nutre di conflitti rigurgitando una dualità simbolica di eccezionale violenza: il centro e la periferia della città, due luoghi di estraniamento che sembrano raffigurare anima e corpo dello stesso individuo – che a sua volta cede il passo a un “noi narrativo” riformulato in chiave corrente; mai al servizio di un programma politico, bensì della sopravvivenza di un mondo in salita, edificato su una crosta di subdola correttezza (post)apocalittica. L’editore lo ha definito “il nuovo Salinger”. Secondo me è più bravo, sono serio. Anzi, più cattivo. Il suo corpo è floscio e biancastro e io ricordo quando m’accorsi la prima volta che non era più bella: vicino alle madri dei miei compagni durante una riunione di classe. Da quel momento smisi di considerarla una rivale a cui nascondere me stesso e mi fece soltanto pena. Ma ora non ha più importanza.
Roberto Addeo