Francesco Permunian, acclamato scrittore italiano, ci regala un’opera letteraria ricca di profondità emotiva e riflessioni toccanti nel suo ultimo libro, Tutti chiedono compassione (Editoriale Scientifica 2023, pp. 152, € 14,00). In questo zibaldone contemporaneo, composto da “Tutti chiedono compassione” e “L’angelo di Dondero”, l’autore esplora la sottile linea tra realtà e finzione, rivelando una prosa elegante e coinvolgente che cattura l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine.
Con una maestria indiscutibile, Permunian dipinge il panorama polesano, arricchito da voci di vivi e morti, offrendoci uno sguardo commovente sulle dinamiche delle relazioni umane. Attraverso comiche disperazioni e pause liriche struggenti, l’autore trasmette un’essenzialità concentrata che tocca le corde più intime del lettore.
Le pagine di “Tutti chiedono compassione” sono abitate da personaggi grotteschi, esplorando un circo culturale che viene smascherato con audacia. L’autore ci regala microstorie frammentate che ritraggono un mondo sull’orlo della catastrofe, lasciando spazio a riflessioni profonde sulle sfaccettature della società contemporanea.
Nella seconda parte del libro, Permunian si unisce al fotografo Mario Dondero per un viaggio attraverso i luoghi storici della Resistenza. Questo confronto con i fantasmi della Storia aggiunge un ulteriore strato di profondità all’opera, arricchendo la narrazione e spingendo il lettore a riflettere sulle vicissitudini del passato e del presente.
La scrittura evocativa e coinvolgente di Francesco Permunian conferma ancora una volta il suo grande talento come autore. La sua capacità di catturare l’essenza dell’esperienza umana è straordinaria, regalando ai lettori un’esperienza di lettura indimenticabile. “Tutti chiedono compassione” si rivela una lettura intensa e appassionante, che affronta tematiche universali con un approccio fresco e originale.
In conclusione, consiglio vivamente “Tutti chiedono compassione” a tutti coloro che cercano una lettura profonda e coinvolgente. Francesco Permunian si conferma come uno degli autori più talentuosi della sua generazione, e questo libro ne è una prova tangibile. Preparatevi ad essere rapiti dalla sua prosa incisiva e dalla sua capacità di suscitare emozioni che perdureranno a lungo dopo aver chiuso il libro.
Carlo Tortarolo
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Certe case
Esili e gracili miniature su carta. Bruscolini sbadatamente dimenticati nel fondo dei cassetti della mia memoria, ecco cosa sono gli appunti che compongono la prima parte di questo libretto.
Residui o calcinacci, che dir si voglia, di una periclitante costruzione sempre lì lì per crollare in quanto – e lo sappiamo bene – è estremamente difficoltoso nonché imbarazzante collaborare con i fantasmi. I quali, istrionici e dispettosi quali sono per natura, entrano prepotentemente in scena nella seconda parte della narrazione conferendole, a loro insaputa, sia la forma che la sostanza di una decadente eppur rispettabile dimora d’antan.
Di una vera e propria «casa dei fantasmi», si potrebbe anche dire. Paradossalmente ben più solida e robusta della prima, che si regge invece sopra un cumulo di frammenti sempre sul punto di sbriciolarsi e franar per terra.
Materiali di risulta, insomma. Come queste mie vecchie righe ripescate a casaccio e ora debitamente ripulite e rimaneggiate per essere offerte all’attenzione dei lettori.
La contrada in cui sono nato contava sì e no una decina di case, tutte gonfie di umidità e corrose dal vento salmastro che proveniva dal mare. Piccole case più simili a stamberghe che, viste da lontano, a malapena si stagliavano sopra una landa di campi laggiù nel Polesine.
Case in cui oggi si odono ancora, sul far della sera, i rintocchi di campane suonate in altri tempi. E per altre persone…
Simulacri di focolari dove, da tempo immemorabile, non entra più anima viva e solo pernottano il gelo e l’oscurità. Luoghi in cui l’odore della solitudine regna sovrano nonostante, fino a non molti anni fa, risuonassero i clamori della giovinezza.
La lontananza. Il passaggio delle stagioni. E l’inarrestabile incedere dell’oblio, a ciò pensavo ieri notte osservando – nel sogno – una piccola strada così breve e impolverata da assomigliare a un viottolo di campagna.
Eppure, nonostante mi ostini a percorrere quel viottolo da più di settant’anni, io sento di non essere ancora arrivato neppure alla soglia di quella casa.
È inutile girarci troppo sopra, non ne vale la pena.
Lo so bene, io per primo, che la mia è una prosa infarcita da materiali di scarto; da mattoni e mattonelle sbrecciate palesemente inadatte per costruirci un solido romanzo.
Sono, in verità, calchi di storie e storielle già note. Già lette e rilette. Fantasie ereditate, in parte, da quel realismo autobiografico che era la cifra segreta di Parise in parte trafugate invece di peso da certi magici «caseggiati» alla Bruno Schulz, tipo quelli che si snodano lungo la celebre «Via dei coccodrilli» nelle Botteghe color cannella.
Case di kafkiana memoria, alla fin fine. Come questa:
«Lo scrivere mi si nega. Da qui il progetto delle indagini autobiografiche. Non biografia, bensì indagine e reperimento di componenti il più possibile minute. Da ciò voglio poi trarre coraggio, come una persona la cui casa sia pericolante, e ne voglia costruire una sicura lì accanto, se possibile con i materiali della vecchia.
Il brutto è, naturalmente, se le forze vengono a mancare nel bel mezzo della costruzione e se così, in luogo di una casa pericolante ma completa, se ne ha una mezza distrutta e una mezza finita, ossia nulla. Ciò che ne consegue è pazzia, dunque una sorta di danza cosacca fra le due case, dove però il cosacco, con i tacchi degli stivali, raspa e scava la terra finché sotto di lui non si apre la sua fossa».
Scanciulìn
Non è la prima volta, e purtroppo non sarà neanche l’ultima, che mi capita di aver a che fare con individui affetti da un disturbo compulsivo.
In genere, ho notato, si tratta di accumulatori seriali che fanno incetta di beni materiali dal valore altamente simbolico (che so, dal vaso da notte dell’imperatrice d’Austria al primo dente da latte di Santa Veronica). Per non parlare, poi, di tutti quegli aspiranti scrittori che accumulano beni «immateriali» collezionando ore e ore di seduta sui banchi di certe «Cucine d’Autore» in cui, a fine corso, si rilascia un regolare attestato o diploma di scrittore.
Ma non è che vada granché meglio ai loro insegnanti, chiariamolo subito, tant’è che ormai non esiste più «alcuna distinzione fra Letteratura e gastronomia cartacea», per dirla con Aldo Busi.
Si prenda il caso – ma è soltanto uno tra mille! – di quell’anziano professore universitario dalla notorietà declinante, il quale, malgrado tutti i suoi travestimenti mimetici, non è mai riuscito a togliersi dalla faccia quella micidiale maschera da 35 accademico che gli ha sempre impedito qualsiasi slancio creativo, qualsivoglia originalità in ambito artistico.
Ciò nonostante, quel vecchietto non fa che correre avanti e indietro rilasciando interviste a destra e a manca, sia alla radio che in tivù, nonché salendo e scendendo in continuazione da treni, aerei e taxi. E tutto ciò, tutto questo frenetico ambaradan, al solo scopo di squadernare in pubblico la sua tristissima mercanzia, manco si trattasse delle tavole della legge mosaica.
«Ma l’è ’na vita da povero scanciulìn!» è stato perciò il commento più che appropriato di mia zia Almerina quando, due giorni fa, l’ha visto saltellare in tivù nel tradizionale talk show del sabato pomeriggio riservato ai bambini e agli anziani.
Scanciulìn: Merciaio. Si tratta del popolare venditore di stoffe a scampoli, quello che appariva sulle piazze con tutta la sua mercanzia contenuta in un involto di un vecchio panno da caserma, legata al portapacchi posteriore della bicicletta.