Francesco Permunian introduce un passaggio dal suo nuovo libro e regala un inedito a Satisfiction.
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Questo libello è nato e cresciuto nel corso degli ultimi tre anni durante i quali ho assistito alla scomparsa dei miei genitori, ragion per cui mi sono spesso recato al paese natale (Cavarzere) per star vicino prima a mia madre e poi a mio padre. Ed è stato dunque là, tra quelle mura avite, circondato dai campi della mia infanzia, che piano piano ho “assemblato” e costruito i Calabiani (da Ca’Labia, la borgata sorta nell’Ottocento attorno alla dimora dei conti Labia, latifondisti veneziani che acquistarono e bonificarono diverse terre nel Polesine veneziano).
E non è affatto un romanzo, sia chiaro, quantomeno nella sua forma tradizionale. Anche perché, da sempre, io non scrivo romanzi, eccezion fatta forse per Nel paese delle ceneri, un racconto lungo pubblicato da Rizzoli nel 2003.
Di sicuro i Calabiani non lo è. Non lo è stando agli standard dell’attuale mercato editoriale, sempre più intasato da romanzi e romanzetti scritti in gran parte secondo il più vieto e tradizionale canone realistico (anche quelli cosiddetti “distopici” o “gotici”).
Più vicino quindi al diario che alla forma romanzesca, questo libro d’ore del tempo perduto e ritrovato (perché tale è!) non rinuncia tuttavia all’invenzione narrativa che si sviluppa attraverso dei personaggi lunatici che abitano e si agitano in un Polesine d’antan, tutti descritti attraverso la lente deformante della parodia.
Quanto al Polesine – per l’esattezza, l’estremo lembo del Polesine veneziano – io lo conosco bene, ci sono nato ed ci ho vissuto per quasi trent’anni.
Infanzia e giovinezza le ho passate là, in quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po. Io stesso sono nato nell’anno della grande rotta del Po – il 1951 – e ne ho visto tutte le conseguenze con la crisi dell’agricoltura e la inevitabile emigrazione di massa verso altri centri del Nord. Specie in Piemonte e in Lombardia, ma anche all’estero.
Uno dei ricordi più strazianti è quello del trasloco di una famiglia in cui avevo due cari amici di giochi: “fuggirono” di notte, come dei ladri, pur di non saldare i debiti che avevano contratto per poter sopravvivere …
Fu un’infanzia, la mia, nata tristemente adulta. Già gravata e attraversata da “voci” e allucinazioni di natura palustre, qual’era in effetti il Polesine quando io venni al mondo.
Tutte cose queste – i ricordi, i dolori, la rabbia, e un’infinita malinconia – che ho riversato nei miei libri. Dove la terra natia non appare affatto simile a una cartolina per turisti, come viene oggi presentata, bensì alla sempre rimpianta terra perduta dell’infanzia.
Francesco Permunian
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ATTRAVERSO I CAMPI DELL’INFANZIA BRUCIATI DAL GELO
Campi di grano e papaveri al vento, laggiù nelle valli del Polesine.
Campi dell’oblio e pallide terre dell’infanzia, perché provo ancora
nostalgia per quei giorni intrisi di cenere e di lontananza?
Eppure laggiù non è rimasto più nulla, assolutamente nulla,
del mio passato. Solo una landa di erbe ingiallite e bruciate
dal vento, che spazza via ogni frammento di memoria.
Perché dunque un tale struggimento nostalgico per quel nulla
che mi accompagna da sempre e che sempre rappresenta
(chissà perché!) la ragione stessa della mia esistenza?
Fatto sta che ogni volta che mi balena nel ricordo qualche immagine
di quel tempo, mi sembra di assistere a un invisibile film in bianco e nero
proiettato nella mia mente da una pellicola ormai sgranata
e irreparabilmente sbrindellata.
E per di più in compagnia di nessun spettatore,
in mezzo a comiche e tremule larve
di un sogno dimenticato nella polvere della spazzatura.
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DUE FRAMMENTI IN UN SOLO CUSCINO
Ultime ore di vita di mia madre, sua breve agonia dopo un’improvvisa crisi cardiaca. Impossibile dimenticare quei momenti in cui, sprofondata nel letto, trovava ancora la forza di raccontarmi alcuni istanti felici della sua infanzia. Qualche barlume estremo della sua spensierata giovinezza: avrebbe tanto voluto, mi diceva, andare a fare un bagno nel fiume assieme a mio padre …
……
Il quale a distanza di poco tempo dal decesso di mamma
(è incredibile: una morta che trascina all’altro mondo un altro morto!),
sta ora sputando l’anima dentro una stanza d’ospedale.
E’ in pieno marasma senile.
Ogni tanto, ma sempre più di rado, qualche timido accenno di coscienza. Di consapevolezza.
Allora mi guarda in silenzio e poi, con gli occhi imploranti mi supplica di strangolarlo. Di farla finita una buona volta, soffocandolo lì su due piedi.
Possibilmente senza fargli troppo male, è così che si raccomanda.
“Non è difficile, figliolo, basta che premi il cuscino sulla faccia!”
mi sussurra con l’ultimo fiato che ha in gola.