«Ecco perché io sottoscritto, Teodoro Maria Baseggio (non più tanto giovane, ma comunque sano di mente e di corpo), finalmente mi sono fatto coraggio e, impugnata una penna, ho dato voce ai fantasmi della mia schifosissima infanzia abusata e tradita. È stato come svegliarsi da un incubo. Non saprei come altrimenti definire quell’oscena piaga segreta che per anni mi ha ammorbato l’anima, quell’oscuro senso di colpa che mi ha accompagnato per tutta la vita. Giunto alle soglie della vecchiaia, dichiaro pertanto e confermo l’inconfutabile veridicità di quanto esposto nel presente Sillabario in cui ho inteso narrare, costi quel che costi, il mio faticoso viaggio di risalita dall’inferno di un orfanotrofio cattolico della nostra cattolicissima provincia veneta».
Sembra di vederlo, Teodoro Maria Baseggio, il nano protagonista dell’ultimo libro di Francesco Permuniam, Sillabario dell’amor crudele (Chiarelettere editore, 208 pp., euro 16,00). È chino a correggere tutto ciò che ha registrato su grossi fogli di carta da pesce, dono di una sua vecchia amante, pescivendola di mestiere, «con una calligrafia così minuta e acuminata da far pensare alla scrittura di un ragno, magari velenoso!». Con sul tavolo i volumi del grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, egli ha redatto questo suo “cahier de doléances” con scrupolo e serietà – e con rancore, certo – intingendo la penna nel pozzo nero della memoria, dei ricordi dell’infanzia, integrandoli con la descrizione di fatti e persone di sua conoscenza. È fiero di sé Teodoro Maria Baseggio, ed è al contempo sfinito, in attesa dell’ultimo treno che sancirà la fine del suo viaggio verso il nulla. La sua infanzia è stata un guazzabuglio di atrocità e soprusi: a otto anni, poiché affetto da nanismo, è stato abbandonato dai genitori, schiaffato dentro un vecchio pentolone e sbattuto davanti alla porta della Santa casa dei trovatelli. È il principio della caduta (a testa in giù «dentro un vecchio pentolone da cui, a stento, fuoriuscivano le mie gambette storte che invano scalciavano nell’aria») ed è, al contempo, l’inizio di questo sillabario visionario o antisillabario o bestiario delle atrocità, catalogo del deforme, che comincia con la“A” di“Anabasi” perché, metaforicamente parlando – ma neanche tanto metaforicamente – Teodoro Maria Baseggio in quel pentolone c’è rimasto per anni. Nell’orfanotrofio è stato violato sessualmente. La sua infanzia è stata una prigione, ed ora che è vecchio, ora che tutta la vita gli è stata usurpata, ecco che finalmente, grazie alla scrittura, egli si eleva in altezza oltre il suo metro e trenta di statura. È un nano e ci appare un gigante, una furia per il bisogno di verità che lo possiede e dilania. È un vecchio e ci appare un bambino. Sembra non aver mai vissuto l’età di mezzo, quella adulta, quasi fosse un bambino piombato nella grande pignatta della vecchiaia, ma anche un vecchio che è rimasto piccolo per ostinazione: per conservare inviolata almeno la lucidità dello sguardo.
Sillabario dell’amor crudele non è un pamphlet contro la Chiesa, contro il clero, tutto, indistintamente, ma un atto d’accusa contro il cancro della pedofilia che nella Chiesa s’annida ed è anche un atto di rivolta contro Dio. «In ultima analisi», scrive il protagonista del libro di Francesco Permunian, «la colpa più grande appartiene a Dio, il quale permette (e magari fomenta) siffatte aberrazioni cromosomiche al solo scopo di distrarsi dalla sua funesta solitudine. Un aberrante capriccio divino, questo sono io. Una minuscola pedina da gioco nelle mani di un dio solitario e malinconico che ha bisogno di nani e buffoni per la sua reggia celeste sempre più vuota e deserta».
Ma niente piagnistei, niente commiserazione, niente vittimismo da quattro soldi. È la grandezza di Francesco Permunian, la sua cifra stilistica e il suo tratto distintivo e sta nella capacità d’intendere la scrittura come effrazione, scardinamento, alla ricerca di una voce che coniugando il tragico con il lirico, li deformi entrambi dando luogo al grottesco, alla sua rappresentazione. Anche teatrale. Perché, suscitati dalla penna e dal ghigno di Teodoro Maria Baseggio, ecco che sfilano la sua ex moglie Bernarda, (che ora s’accoppia con un molosso), la zia Mabilia, rimasta suo malgrado illibata, lo zio Petronio, cofanista di bare, la madre superiora suor Clemenzia, padre Camillo Mendes, la bambina prostituta Baby Yaba, il parroco del paese, le beghine, gli intellettuali di provincia, le sorelle Pompa, la novantenne Maria Fedora Insorgente che ancora sogna di fare la modella: una galleria di personaggi che insieme fungono da “coro” e si scatenano e dimenano sul palcoscenico delle pagine, in questa danza de los viejitos (la danza dei vecchietti), guastati dal vizio e dalle aberrazioni della carne e dello spirito. Perché forse non è un caso se il protagonista del Sillabario dell’amor crudele – colui il quale procede nel raccontarci la sua personale esperienza e visione del mondo attraverso la sua voce e i suoi sensi e quelli degli altri, e di tutti coloro che sentono le voci e sentendole sconfinano lo spazio e il tempo così come sono intesi in ambito realistico e naturalistico, tutti marchiati sulla pelle, tutte pedine offese da un Dio beffardo e incomprensibile – ha lo stesso cognome di Francesco “Cesco” Baseggio, che fu attore cinematografico, anche, ma che si affermò soprattutto come interprete del teatro dialettale veneto.
«E specialmente i miei amici barboni. Gli unici esseri al mondo tra i quali mi sono sempre sentito accettato per quello che sono, un misero nano cresciuto in un orfanotrofio di provincia; gli unici compagni di sventura nei cui occhi io non ho mai ravvisato il benché minimo sguardo di compassione o di derisione. Le uniche persone oneste e sincere – è giusto che adesso si sappia – alle quali io lascerò ogni mio bene, mobile e immobile, quando per me giungerà il momento di passare a miglior vita andandomene da questo mondo infame e ridicolo.»
Gianluca Minotti