Francisco Magallanes è uno scrittore argentino.
Il suo nome sembra quello di un centravanti uruguagio, uno di quelli con i capelli lunghi sempre bagnati e il nastrino sulla fronte per tenerli fermi. Un centravanti smilzo, con gli zigomi sporgenti e la faccia da indio, un levriero che svaria da una fascia all’altra insieme a tutti quei banditi di talento come Luppino e Mario Bellatin che si è messo in testa di pubblicare. È uno scultore di lava, come spesso capita ai sudamericani, uno di quelli che vanno alle mostre con un martelletto in tasca per rompere le cornici ai quadri e liberare le tele.
El Palomar, ultimo eccentrico dell’editore Arcoiris, tradotto da Raul Schenardi, è un Lo cunto de li cunti.
Ambientato nella piccionaia di La Plata, tra tifosi dell’Estudiantes e del Gimnasia y Esgrima, è un insieme di storie interrotte, frattali, dove i protagonisti sono cercatori d’aria, giovanissimi, che guidano le macchine a noleggio di notte e vivono per vedere le partite, nel sogno degli ultras, bevendo molto, drogandosi il giusto per non impazzire. Sono annegati in una miseria che non li umilia ma dalla quale sognano di uscire facendo il grande colpo della vita.
Lo Smilzo, il Maglietta, il Pisello, la Sbarbina con la frangetta, tutti hanno l’incubo di finire in carcere che loro chiamano Il Canada o di continuare a morire una fatica alla volta come fiori che appassiscono senza luce.
Non ha consolazione El Palomar e tutto quello che di grandioso accade è già accaduto. Tutti ripercorrono le gesta passate, le grandi avventure, le partite più belle, i cori meglio riusciti, le grandi abbuffate di carne di vino e di adrenalina.
Mia moglie si chiede spesso cosa ci trovo. Non solo lei, anche mia madre. Io tifo per il Napoli e tutti quelli che sono cresciuti negli anni novanta sanno che non è stato facile. Se il Napoli perdeva io non uscivo di casa e ancora adesso, parlo poco, litigo con la squadra e per una settimana non li voglio vedere. Però li perdono, poi, perché sono innamorato e mi convinco ancora, mi convincevo persino quando non c’era nessuna speranza al mondo che si potesse ribaltare la sorte, perché la cosa più bella dello sport è che puoi recuperare. Gli errori, le sfortune, si resettano partita dopo partita. Si ricomincia da zero. Molte persone non capiscono cosa ci sia d’interessante. Ogni anno le stesse partite, gli stessi scontri. Eppure il bello sta tutto là: che non finisce mai…
Lo sport non è come la vita, è come la letteratura. Durante i novanta minuti, durante il racconto, la vita resta fuori. Tutti i problemi stanno da un’altra parte. Non hai debiti e non hai guai. Queste cose ti aspettano fuori dal campo, non ci sono capi e sottoposti, ricchi e poveri. Certo le posizioni cambiano, i posti in tribuna e la curva, la panchina e il campo, ma ognuno ha un ruolo nel suo posto di combattimento e si può fare la differenza. Marx non lo sapeva perché non lo lasciavano giocare, ma lo sport è il più grande livellatore sociale dal tempo dei dinosauri. Dentro il campo la domenica sono tutti uguali. Per novanta minuti non esistono gerarchie. Nella vita perdiamo quasi sempre. Subiamo angherie a lavoro, la nostra condizione economica ci umilia però, una volta a settimana, noi possiamo vincere. È una questione di riscatto. Per questo ti affidi a qualcuno che ti sta vicino, se sei un giocatore, abbastanza vicino se sei l’allenatore o lontano, nel caso del tifoso. Però tutti possono contribuire, tutti fanno la loro parte. Il tifoso, per esempio, urla e canta ed è come se spingesse la palla con il suo fiato. Per questo diventiamo bestie se perdiamo, perché ci sentiamo traditi. Era la nostra occasione per vincere, stavolta toccava a noi e abbiamo perso ancora.
Il calcio, la letteratura, non sono come la vita, sono meglio.
Pierangelo Consoli
#
Francisco Magallanes, El Palomar, edizioni Arcoiris, 2023, Pp. 72, Euro 10.