Il critico letterario Franco Cordelli ha da tempo consuetudine con il romanzo – tra gli altri Procida, Pinkerton, Il Duca di Mantova, Una sostanza sottile – e ora ritorna in libreria con Tao 48, edito da La Nave di Teseo. Forte Preneste, Barberini, Tiburtina, Porta Pia, Fori Imperiali, Termini, Arco di Travertino, Tor di Quinto, sono solo alcuni dei quarantotto luoghi della città di Roma a partire dai quali, rievocandoli, Cordelli intesse una rete di racconti interconnessi, popolati da personaggi ed eventi ricorrenti, sullo sfondo di una città che diviene anch’essa protagonista assoluta della narrazione. In filigrana, poi, scorre anche il racconto autobiografico dell’autore: un lavoro di ricostruzione dell’essere stato nel tempo, di rammemorazione che riconduce ai primi anni di vita, alla madre, e poi agli amori, le passioni, il teatro. Attraverso il filtro del ricordo e dell’esperienza diretta i contorni e le parti della città prendono corpo e fluttuano riflessi nella scrittura: “Probabilmente l’improvviso ricordo nasceva da una sera della settimana precedente. Lo avevano portato a una festa proprio in quel luogo. Si attraversava un fossato, si salivano le scale e si entrava nel Forte. C’erano ragazzi tra i venti e i quarant’anni: relitti d’ogni natura, animali preistorici, tutta la decadenza che si era lentamente accumulata nel corso degli ultimi due decenni. Che era successo in quel tempo? ”.
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Come una trance prolungata i cui effetti sarebbero stati poi devastanti, il sabato si dilatò fino alla mattina successiva. Fu dedicato, così gli parve, alla letteratura italiana del Novecento. O all’Italia: l’Italia della sua infanzia, quella che il maestro Barbieri, reduce di guerra, chiamava Patria e che sosteneva essere uno dei valori fondamentali. Questi valori erano tre, ma lui non ricordava gli altri due. Il primo forse era la famiglia; il secondo (ma si intendeva l’ultimo, che riassume e glorifica), il maestro Barbieri, un uomo piccolo e con i baffetti, di sicuro un meridionale, forse lo chiamava Dio.
Dio come? Non avrebbe saputo dirlo.
A ogni buon conto, la mattina ruotò intorno all’ultimo Novecento; il pomeriggio intorno al dopoguerra. Il romanzo del pomeriggio, quello che lui scelse, fu La giudìa di Sandro De Feo, sconosciuto ai più – non a lui, che lo amava: erano storie brevi di un reduce di guerre imprecisate, storie di un uomo che non sceglie, incantato, sbalordito, sprofondato nella decadenza della città ch’era tutta sua. Il romanzo della mattina fu – non ricordava il titolo, ma parlava di cavalli, di corse al galoppo e al trotto, gli ricordava suo zio, che aveva una scuderia e con Nuccio aveva vinto l’Arc de Triomphe, e suo padre che la domenica lavorava ai picchetti e lo portava sempre con sé, a Capannelle.
Emilia lo incalzava con le domande. Voleva sapere tutto delle sue origini, chiamiamole così. Dove era nato, dove aveva studiato, dove trascorreva le vacanze e, soprattutto, chi aveva amato. Era mai stato innamorato, prima di allora? Miranda, al contrario, era muta. Cioè, non era muta affatto. Il suo mestiere erano le parole: maneggiava parole come uno scavatore accecato dal bianco maneggiava pietre. Esse venivano scagliate lontano, nei limiti del possibile; e ricadevano a terra fragorosamente; e ricadendo, con la loro massa, modificavano la massa che poneva termine alla traiettoria, dopo naturalmente aver modificato la massa da cui erano state estratte. Lui si accaniva a dimostrare il senso di questa meccanica. “Ecco, vedi,” le diceva, “qui c’era una massa compatta, ora c’è un buco. E qui c’era un buco, ora non c’è più. Che le parole siano pietre, o che siano più delicate, la meccanica non cambia. Tutto è simbolico.”
Miranda, per orgoglio, per umiltà, per devozione, per cortesia, non rispondeva, non poneva domande. Allora lui aggiungeva: “Tu sei al centro dell’universo. Esso, costui, può essere visto secondo una qualunque angolazione, per esempio la tua. Ma per quanto privilegiata, non è che uno spicchio, un angolo. È da qui che nasce la sofferenza.” Poi concludeva invariabilmente così (ripeteva ritornelli come il maestro Barbieri, che aveva incontrato tutte le mattine, per cinque anni, in un’aula della scuola Regina Elena, in via Puglie): “Ma potresti fare uno sforzo. La vera fantasia è questa. Potresti immaginare l’universo così com’è, non visto, o visto secondo nessuna prospettiva. Si tratta, con ogni evidenza, di un in sé, ubbidisce a leggi tutte sue, se lanci una pietra, ricade; se scavi e fai un vuoto, un altro vuoto si riempirà.” “Fissalo,” le ingiungeva, di colpo assumendo la statura di un padre. “Guardalo con attenzione. È il segreto della non sofferenza.”