«È il momento, amico lettore, in cui devi predisporre il tuo cuore e il tuo spirito al racconto più impuro che mai sia stato fatto da che il mondo è il mondo, non reperendosi un libro simile né presso gli antichi né presso i moderni.»
Del Marchese De Sade il meglio letterario è rappresentato da La filosofia del boudoir, Le sventure della virtù, La nuova Justine, Juliette e i crimini dell’amore.
Al contrario Le centoventi giornate di Sodoma è un testo che il lettore non finirà mai, perché tutto basato sulla ripetizione di scenari e azioni che infine apportano non l’orrore dello scritto, ma quasi una apatia dietro lo sconforto.
Lo scopo è proprio questo: assumere la crudeltà dell’umanità come normazione sotto traccia, come epifenomeno, per cui hai in superficie un modello di polis in cui va in scena una pura rappresentazione (scuola, famiglia, patria, morale e religione) declinabile unicamente in termini di falsità, dissimulazione, impudenza del dominio.
Quello che sta in alto si riscontra però in maniera del tutto speculare con quanto avviene in basso. Solo che in basso il dominio può mostrarsi nella sua vera indole: potere come arbitrio assoluto che si autoinventa, si emenda dalle sue strutture morali per svelarsi apertamente maligno. Non animale, ma propriamente umano. Quell’umano consistente nella bramosia, nella corsa al potere, nell’immondo istinto che anela alla mera sopraffazione dell’altro di cui l’aspetto sessuale di pura annichilazione è parte integrante, se non fondantiva.
Era il 14 luglio 1789 quando la Bastiglia cedette all’assalto dei rivoltosi. Sade, che vi era stato prigioniero da più di un decennio anche a causa dei suoi scritti, vi era giunto il 4 luglio. Nel trasferimento aveva perso il manoscritto o gli era stato sequestrato.
Per lui fu la tragedia più dolorosa della sua vita, ebbe a dire una volta.
Ne rimase un rammarico cosi forte da segnarlo per sempre, come se avesse perso un figlio. Non poteva riscriverlo, proprio perché gli sarebbe mancata una condizione: lo stato di prigioniero.
Il libro fu ritrovato cento anni dopo, nel 1900, presso un libraio tedesco.
La riscoperta del libro, che ne fece un bestseller globale, si deve a Flaubert e a Baudelaire. Così Le centoventi giornate di Sodoma fu acclamato dai surrealisti, fu analizzato da Foucault, Blanchot, Bataille e da Simone de Beauvoir, fu trasposto da Pierpaolo Pasolini in pellicola nel 1976.
Probabilmente il testo andava completato perché manca di un finale, sempre che il finale non sia proprio questo: l’infinito orrore riutilizzato da Sade in forma rituale, il vero logos ineffabile e vizioso della Storia, il Moloch che governa le cose e l’Idra Madre che riguarda l’intera Natura con le sue varianti, questo insieme scaturisce in Sade appunto nell’horror vacui, dove non può esistere un finale.
Una rappresentazione, quella di De Sade, che ricorda Schopenhauer senza la sua fede di rinuncia buddista e con in più la parte esiziale del dramma che è vivere in uno stato perenne di guerra civile, di genere, di classe. Ciò nella coscienza dell’avanzare implacabile della Morte, questa consapevolezza che distingue l’uomo dagli altri viventi, che lo rende biologicamente diverso rispetto agli animali.
Tuttavia in Sade non viene risolta questa visione implacabile della Natura se non la si esamina assieme alla veemenza della stessa critica della società divisa in classi.
Qui Sade, antesignano di Babeuf, Marat, Marx, si mostra vero rivoluzionario, al passo coi tempi per cui la Rivoluzione doveva riguardare le libertà civili, così come pure l’uguaglianza e l’abolizione tout court del sistema morale, comprese sotto la scure famiglia e religione, autentici pilastri della conservazione e dell’inganno sistemico della Storia.
Marcello Chinca Hosch
Recensione al libro Le centoventi giornate di Sodoma di François de Sade, trad. Giuseppe De Col, Se 2019, pagg. 407, € 35,00