Franz Kafka e Max Brod si conobbero, non ancora ventenni, nel 1902. Da quel primo incontro nacque un’amicizia. Un rapporto asimmetrico: da un lato un intellettuale – Brod – che andava riscuotendo un crescente successo fino ad apparire agli occhi dei suoi contemporanei una figura di prima grandezza nella cultura praghese di lingua tedesca, dall’altro uno scrittore che viveva con un misto di vergogna e orgogliosa consapevolezza il proprio straordinario talento.
In un fitto intreccio di confidenze, aneddoti, riflessioni, Kafka condivide con Brod ogni aspetto della sua esistenza, dalla composizione dei romanzi fino alle sue tormentate storie d’amore. Nelle reciproche incomprensioni, nelle differenze del modo di guardare alla vita e alla scrittura, la disparità tra i due autori affiora di continuo, tanto che davvero potrebbe sembrare, come osservò Walter Benjamin, che Kafka abbia voluto porre con questa amicizia un punto di domanda accanto alla sua vita.
Kafka e Brod concepiscono la vita, la scrittura e il legame fra esse in maniera radicalmente contrapposta. Brod era cresciuto in una famiglia alto-borghese nella quale l’offerta culturale era ricca e variegata. Socievole, spigliato, estroverso e con i tratti particolari e stereotipi del letterato decadente, egli suscita nel ritroso Kafka un sentimento misto di sincero apprezzamento e di avversione, che resterà una costante nel loro ventennale rapporto di amicizia.
La preghiera che Kafka rivolge a Brod in momenti particolarmente critici della sua malattia, chiedendogli per ben due volte di bruciare ogni suo scritto, la volontà di scomparire totalmente dalla memoria dell’umanità, non è tanto legata al sentimento di vergogna che accompagna la sua intera esistenza, tanto meno è segnata dalla implicita consapevolezza che l’amico farà l’esatto contrario, come alcuni commentatori hanno rilevato (E. Heller, S. Fisher). Si tratta piuttosto di un’esigenza profondamente legata a una concezione della scrittura come discesa negli abissi, come condanna e redenzione, come concezione pervasa da uno spiccato narcisismo spinto fino al limite dell’autocommiserazione.
Sottolineano Rispoli e Zenobi nella introduzione quanto è a questa vanità, a questa necessità scaturita da una sfrenata ansia di godimento che Kafka non vuole soccombere, perché se in vita ciò significa combattere la paura della morte e cioè, sostanzialmente, rinunciare a vivere nello scrivere, tale funzione resta indissolubilmente legata alla vita terrena dello scrittore e non può che finire con essa.
Max Brod avrebbe tracciato una netta separazione tra le proprie espressioni pubbliche (opere) e quelle private (il diario e le lettere). Di qui il minor valore letterario delle sue lettere.1 Quelle di Kafka testimoniano invece di continuo il trionfo della letteratura sulla vita, il trionfo dello scrittore sull’uomo. Per questo esse sono a tutti gli effetti parte dell’opera.2
In Kafka questo trionfo si traduce nella tendenza a fare di ogni lettera l’occasione per creare un brano letterario, attraverso un processo in cui ogni cosa, ogni esperienza – e da questo non sono esclusi il proprio corpo e la propria persona – diventa segno e metafora.
A Praga Kafka vive a diretto contatto con le teorie che andavano rivoluzionando la realtà del mondo scientifico e che, grazie alla fenomenologia e alla psicologia, riflettono sulle percezioni e sulla vita cosciente autoconsapevole. Le indagini che intrecciano fisica e riflessione filosofica pongono dinanzi ai paradossi di una realtà che smentisce i sensi non solo scoprendo nuove leggi fisiche ma pure zone di latenza che fanno segno a un mondo che sfugge alla psicologia descrittiva. Kafka ha sempre mostrato interesse per tutte le manifestazioni di vita interiore e diffidenza per le costruzioni onnivore e macchinose. La sua letteratura, le annotazioni di diario, le missive, i frammenti, gli aforismi non fanno che esplorare il divenire cosciente di fatti ed eventi, distinti dalle percezioni sensoriali come pure dal processo rappresentativo e generati altrove.
La complementarità che nella fisica del Novecento travolge ogni aspettativa legata ai sensi erode il fondamento di ciò che comunemente chiamiamo realtà esterna poiché comporta l’impossibilità di determinare la natura di un fenomeno in maniera univoca. Se saltano causalità, non-contraddizione, località, simultaneità di spazio e tempo, il soggetto che conosce perde le coordinate di riferimento del suo proprio orizzonte fisico e interiore. Greenberg considera la complementarità uno strumento adatto allo studio della letteratura di Kafka. Alla complementarità si potrebbe aggiungere la prospettiva psicoanalitica per cui il soggetto della conoscenza si trova incagliato in una situazione paradossale e indecidibile. Bisogna indagare come questa complementarità, estranea all’Io corporeo, ai sensi, alla nostra immagine allo specchio, costituisca lo sfondo irrappresentabile dei processi creativi.3
Vi è un aspetto che ha particolarmente colpito Rispoli e Zenobi del carteggio tra Kafka e Brod, ovvero l’assenza. L’opera letteraria di Kafka, una pur minima discussione su di essa, risulta del tutto esclusa, salvo brevi accenni, dallo scambio epistolare. In realtà sono poco numerose anche le lettere in cui si affronta il tema della letteratura. È dunque molto probabile che Kafka abbia voluto costruire una sorta di muro. Un simile processo di preservazione agisce non solo riguardo le opere concluse, ma anche in merito al proprio processo di creazione letteraria. Il suo scrivere è un lavoro notturno, una discesa agli inferi che in una condivisione con l’altro non potrebbe trovare che il proprio annientamento.
«Io non ho un interesse letterario, ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro.» (Franz Kafka)
Per Kafka è lo stile a far parlare il corpo in una sua verità, a conferirgli ritmo e pause. Nel momento della scrittura il cogito deve essere tenuto a bada per non interferire con il godimento. Il ricorso alla punteggiatura come ad altri segni paragrafematici, l’attenzione per gli elementi prosodici, i tratti sovrasegmentali, l’abitudine di illustrare le sue scritture con schizzi a penna ha funzione pittogrammatico-auditiva. Parlare di rappresentazione tenendo conto del soggetto dell’inconscio e delle sue interferenze nella vita vigile comporta pertanto una torsione logica che mette in discussione i concetti. La realtà psichica è attraversata da parte a parte non solo dalla mancanza, dal senso della perdita ma proprio per questo, e soprattutto, dalla tendenza allucinatoria a negare, denegare o forcludere il vuoto costitutivo della soggettività. L’apertura verso l’oggetto di soddisfacimento allucinatorio non può aver luogo se non in condizioni particolari, quali lo stato di sonno o quegli stati semi-oniroidi che strutturano i processi creativi. Ne consegue che l’esame di realtà consiste in un incessante lavoro di filtraggio, atto a raggiungere un grado di omeostasi, una sorta di bilanciamento tollerabile tra stimoli endogeni ed esogeni. Fin dalle prime scritture si misura l’inadeguatezza del limite imposto dal principio di realtà che è sempre frutto di un accomodamento. Si tratta di stare nelle cose prima che l’Io dell’appercezione cominci a raccontarsi. Addirittura stare nelle cose prima di esistere per farle esistere. Dismettere il narcisismo del controllo auto-consapevole per stare presso le cose e guadagnare quella stabilità che rende pervie, elastiche e porose le sinapsi di connessione nel reticolo del paraeccitazione. Si tratta, infine, di stare appena un poco fuori di sé presso di sé per incontrarsi là dove non ci si aspetta ed è questo il lavoro dell’artista, dello psicoanalista e del poeta.4
Mentre per Brod la letteratura e il sionismo sono una cosa sola, per Kafka al contrario la letteratura, la propria solitaria attività di scrittore, è esattamente ciò che lo preserva fin da principio da un’adesione al sionismo, facendosi piuttosto momento di resistenza a ogni propaganda nazionalistica e a ogni strumentalizzazione della parola.
Fin dal 1911, abbandonate le posizioni del cosiddetto «indifferentismo», Max Brod aveva risposto al richiamo di Martin Buber e del suo sionismo culturale. Ciò significava guardare con riprovazione o quantomeno con sospetto a quegli intellettuali ebraici avviati a un’assimilazione in cui ogni identità e ogni appartenenza a una patria e a un popolo andavano confondendosi in un atteggiamento cosmopolita. Sottolineano Rispoli e Zenobi quanto il difficile tentativo di delineare il profilo degli scrittori ebraici di lingua tedesca, dando vita a uno spazio letterario idealmente separato dalla cultura germanica, fu naturalmente anche un tentativo di risposta al montante antisemitismo. Tuttavia, per molti versi le tesi sostenute dal sionismo culturale finivano per essere tutt’altro che incompatibili con certe forme di nazionalismo germanico radicalmente antisemita: comune a entrambe le tendenze era il rifiuto di un cosmopolitismo in cui venissero meno le tradizionali identità, si trattava cioè della radicale affermazione di uno spirito nazionale che doveva mantenersi distinto da ogni contaminazione.
Simili affinità erano tutt’altro che segrete se si pensa che nella stessa «Selbstwehr» (la rivista con cui collaborava Brod) si parlava di un patto di alleanza con gli ambienti culturali più conservatori, il cui fine era appunto quello di stanare gli ebrei ormai impregnati di cultura tedesca, spingendoli a riconoscere le proprie origini.5
Soffermarsi sulla parabola della scrittura kafkiana consente di accorgersi che quanto più si fa enigmatica tanto più diventa la cifra della solitudine dell’ebreo occidentale senza memoria e senza radici, della stanchezza dell’intellettuale nei confronti di un tempo avvertito come rassegnato perché incapace di trovare un riscatto, della inesausta ricerca della verità del proprio tempo che passa attraverso la scrittura. E, in particolare, la lotta contro la modernità dispiegata, contro i suoi apparati burocratici e i meccanismi di controllo e di potere, che avvinghiano l’uomo facendolo sentire «nessuno», come avviene nell’opera il Processo, diventa l’espressione di quella ebraicità ai margini, su cui tanto ha insistito Arendt quando l’ha esemplificata nella figura del paria.
È nel mettere a tema l’esclusione e l’isolamento che Kafka intercetta la via per una nuova consapevolezza dell’ebraicità, dopo le stagioni dell’assimilazione e del ghetto, quella che passa attraverso l’adesione a un difficile sionismo e a una letteratura militante che celebra il valore dell’arte quando resiste alla barbarie del proprio tempo. Del resto, appartenere a quella “età ebraico-occidentale”, la westjüdische Zeit, che comprende i primi decenni del Novecento, significa percepire sulla propria pelle la negatività del proprio tempo e della propria condizione. Con questa espressione lo scrittore descrive la situazione umana e morale degli ebrei di lingua tedesca, ovvero gli ebrei di Praga e di lui stesso, il “più occidentale” dei suoi stessi correligionari e per questo incapace di sentirsi pienamente a casa, sospeso com’era tra l’ebraicità occidentale e la cultura assimilata, fra l’ebraicità orientale e il sionismo.6
Ciò che ha costretto Kafka a tradurre nella scrittura l’atmosfera ambigua della città e ad avvertire il peso di una storicità decaduta o assente è il vivere non tanto dentro un crogiuolo di culture, ma dentro un ebraismo circoscritto e isolato.
Lontano dalla realtà difficile dell’assimilazione e tuttavia investito dalla urgenza di farsi carico della crisi della identità ebraica, ancor prima dell’esplosione drammatica della follia nazista, lo scrittore traduce questa realtà antinomica dentro una prosa lucida, pulita, razionale che non cede mai all’innamoramento della parola o della prosa epica. La tensione che si instaura tra la pulizia formale del testo e l’ermeticità di una rappresentazione che immobilizza il lettore nella esperienza dell’assurdo e di figure senza tempo rivela la lotta dello scrittore contro il caos e il disordine della storia. Una scrittura che nel prendersi in carico la paura di chi non riesce a comprendere cosa sta accadendo, preferisce differire parlando lo stesso linguaggio razionale ed efficiente che la modernità occidentale aveva inventato insieme al treno, alla macchina e all’aereo. Opere con cui si cerca di dissolvere le inquietudini e le menzogne, mentre la scrittura ingaggia con esse una lotta simile a quella “con gli spettri”, necessitata da un interno bisogno di verità che ricerca parole in grado di accoglierla.7
Uno dei tanti spettri indagati da Kafka è per certo la tubercolosi. Proprio lo sgomento davanti alla mancanza di senso di questo evento scatena la ricerca di una interpretazione, la ricerca dunque di fare della malattia una metafora.8 Kafka fin da principio si adopra a ricercarvi un significato e per questo vuole vedere nella lesione polmonare “soltanto” un Sinnbild, un simbolo, tanto che la malattia viene interpretata in un passo del diario come «la possibilità, se pure questa esiste, di incominciare». La malattia diviene quindi per molti versi espressione somatica dell’incapacità di aderire ai valori della comunità. Essa è simbolo dell’inadeguatezza alla vita borghese nel seno della comunità ed è anche dolorosa e palese confutazione di una propaganda, quella sionista, che – sul modello del culto del corpo e dell’attività fisica portato avanti dalla pedagogia legata alla Jugendbewegung e alle organizzazioni nazionalistiche europee (dalle Turngesellschaften germaniche ai Sokol cechi) – era tra le altre cose volta a coltivare il vigore fisico del popolo ebraico.
In questo Rispoli e Zenobi suggeriscono la possibilità di osservare una qualche forma di convergenza tra Kafka e Brod: per entrambi infatti la tubercolosi non è solo affezione che colpisce i polmoni, ma diviene sintomo di qualcosa di diverso. Solo che mentre per Brod essa va superata, per Kafka la malattia è anche ciò che gli consente di affrontare i propri fallimenti e la pressione che ne deriva, l’incapacità di fare parte del popolo e della nazione.
Ecco allora che la tubercolosi che ha colpito Kafka diventa metafora, manifestazione fisica di un più ampio disagio, dell’inadeguatezza a rientrare in seno a una comunità attraverso il matrimonio e la rinuncia alla propria solitaria esistenza.9
L’impegno di vivere e rappresentare il negativo del proprio tempo emerge in ogni piega dell’opera di Franz Kafka. Del negativo, del nulla, dell’assurdo, del senso e del paradossale assurgere del negativo Kafka fu l’interprete e il poeta.10 Mentre per Kafka Max Brod costituisce uno straordinario medium di accesso diretto a tutto ciò che nella realtà egli esperiva come mediato, per Brod l’amico era capace, come un sensibilissimo reagente chimico, di portare alla luce i moventi, anche più reconditi, del suo agire.
Irma Loredana Galgano
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Franz Kafka, Max Brod, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, Neri Pozza Editore, Vicenza, seconda edizione 2024.
Traduzione e Introduzione di Marco Rispoli e Luca Zenobi.
Titolo originale: Max Brod – Franz Kafka. Eine freundschaft. Briefwechsel.
1M. Pasley, Nachwort in Max Brod – Franz Kafka, eine freundschaft. Briefwechsel ( a cura di M. Pasley), S. Fisher, Frankfurt, 1989.
2G. Deleuze e F. Guattari, Kafka – Per una letteratura minore, Quodilibet, Macerata, 1996.
3R. Maletta, Franz Kafka: la letteratura tra serie complementare freudiana e meccanica quantistica, IRIS – Institutional Research Information System – AIR – Archivio Istituzionale della Ricerca, Università degli Studi di Milano, Milano, 2018
4R. Maletta, Sopra un frammento del giovane Kafka. Modi della Vorstellung, Materiali di Estetica, N. 4.2, Università degli Studi di Milano, Milano, 2017.
5G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino, 1984.
6G. Costanzo, Franz Kafka: la metafora della “tana” come rifugio e come scavo, Itinerari – Mimesis Journals, N° LXII, 2024.
7G. Costanzo, op.cit.
8S. Sontag, Malattia come metafora, Einaudi, Torino, 1992.
9F. Kafka, W. Haas (a cura di), Lettere a Milena, Mondadori, Milano, 1988.
10G. Bruno, Scrittura ed ebraismo in Franz Kafka, ESE Publications – UniSalento, Volume )/10, Lecce, 1988.