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Frédéric Paulin anteprima. La guerra è un inganno

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L’arte di sopravvivere: “Moussa lo sa che tanti detenuti si inventano storie per continuare a vivere. Sono storie che non lo riguardano, ed è consapevole che a ficcare il naso potrebbe prendersi una coltellata anche lui”.

Verità oscure: “Ci sono volute settimane, anzi mesi, prima che Bougachiche intuisse qual era la verità: i comandi militari avevano bisogno di martiri, per rafforzare la coesione delle truppe. E infatti, man mano che i loro compagni morivano nelle imboscate, gli uomini del CLAS diventavano un branco di bestie feroci, saldamente unito.”

L’arte dei conflitti: “La guerra contro le bande alla macchia non ha nulla a che vedere con la teoria che gli è stata insegnata: la guerra è anche svilire il nemico, umiliarlo, distruggerlo psicologicamente, una violenza che la bestia feroce non disdegna”.

Il 12 Giugno sarà in libreria La guerra è un inganno di Frédéric Paulin, (Edizioni E/O 2024, pp. 384 € 19,50) con traduzione di Giovanni Zucca.

Frédéric Paulin, scrittore e giornalista residente a Rennes, ha scritto il romanzo La nuit tombée sur nos âmes dopo aver partecipato al G8 di Genova. Conosciuto per i suoi numerosi romanzi noir, ha avuto grande successo con la trilogia Benlazar, il cui primo volume La guerra è un inganno ha vinto il Grand Prix de Littérature policière 2020.

Ambientato in Algeria tra il 1992 e il 1995, il tenente Tedj Benlazar, agente della DGSE con madre francese e padre algerino, scopre campi di prigionia segreti e legami tra l’intelligence algerina e gruppi islamisti.

In un contesto di proteste popolari e successi elettorali dei partiti islamisti, le forze armate e i servizi segreti rispondono con repressione per mantenere il potere, scatenando una spirale di violenza e terrorismo che sfocia in una brutale guerra civile. Questo conflitto in Algeria ha ripercussioni internazionali, contribuendo all’emergere del terrorismo in Francia.

Il romanzo racconta la sofferenza dell’uomo nelle tensioni che infiammano il mondo.

Un mondo dove potere, odio religioso, menzogna, e ingiustizia diventano gli ingredienti nella ricetta del terrorismo.

Carlo Tortarolo

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È laggiù, in fondo a una galleria scavata nel Tan Afella, che è scoppiata la bomba. È successo trent’anni fa, il primo maggio 1962. Il cielo era plumbeo e la montagna ha tremato come se il granito si fosse trasformato in gelatina di frutta.

La bomba l’hanno chiamata “operazione Beryl”. Cioè, i francesi l’hanno chiamata così. Gli algerini non l’hanno chiamata in nessun modo. La potenza era quattro volte quella dell’atomica sganciata dagli americani su Hiroshima, alla fine della Seconda guerra mondiale.

Moussa Ahmed Chaouch ricorda solo quella luce accecante e lo spostamento d’aria che li ha buttati a terra, lui e i suoi due fratelli, nonostante si trovassero a più di due chilometri dal punto dell’esplosione. Ne avevano riso, lui aveva poco più di dieci anni.

Passati tre o quattro giorni, i francesi si erano limitati a chiudere l’imbocco della galleria con una colata di cemento. Neanche a parlarne di risanamento o di una minima decontaminazione. Suo padre e uno dei suoi zii avevano lavorato al cantiere.

I francesi se n’erano andati dall’Algeria di lì a qualche settimana; il paese si era appena conquistato l’indipendenza, dopo una lunga guerra e una grande quantità di sofferenze. Gli algerini erano ormai padroni del proprio destino: a difenderlo sarebbero stati Benkhedda, Belkacem, Ben Bella e Boudiaf.

Suo padre e suo zio erano morti nel corso dell’anno successivo.

Moussa aveva dodici anni, ma si ricorda bene dei loro corpi scarnificati, dei gemiti e della lenta agonia. Quanto ai suoi fratelli, sono morti di cancro prima di compiere trent’anni. Lui, invece, si è salvato dalle radiazioni. Non ha idea del perché, ma ha avuto questa fortuna. Molti in quella regione sono morti giovani, e molti giovani soffrono di malattie sconosciute. Una delle sue figlie, Maïssa, la prediletta della famiglia, è stata colpita dalla poliomielite. È costretta su una sedia a rotelle dall’età di quattro anni. La moglie di Moussa piange spesso, la notte. Lui non piange, chiede solo ad Allah di aiutare Maïssa.

Moussa Ahmed Chaouch non sa perché si è salvato dalle radiazioni, ma sa bene, come tutti quelli che vivono lì, che gli abitanti soffriranno sempre per colpa delle polveri letali trasportate dai venti del Sahara. Si sistema meglio la sciarpa bianca intorno alla testa come per proteggersi e pensa che un giorno, forse, anche lui sarà colpito. Il cielo a volte è grigio: dicono che sia per colpa delle ricadute radioattive. Cosa che non impedisce alle autorità di voler fare di Aïn M’guel uno dei centri agricoli del sud dell’Algeria. Una follia, pensano Moussa e quelli che hanno assistito all’operazione Beryl.

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