Il rumore è un po’ come quello che si sente nei padiglioni o nelle palestre, quando tiri forte e la pallonata colpisce il telone di plastica. Prima fa spench e poi èèèèèèèèèèè. Sento il rumore, vedo un flash, cadendo intravedo il capitano e un altro ragazzo sdraiati dietro di me. Mi devono essere saltati i timpani perché sono ovattato. Avverto mugolii di dolore che sembrano lontanissimi. Primo pensiero: porco il demonio, è esploso un RPG.
È l’11 febbraio 2019. Gabriele Micalizzi, fotoreporter, si trova sul tetto di un edificio nella città di Baghuz, in Kurdistan, durante i combattimenti tra esercito curdo e milizie dell’Isis. Un razzo colpisce in pieno il tetto, e Micalizzi – gravemente ferito – si trova a ripercorrere tutte le guerre vissute fino a quel momento. Parte da qui, da quel tetto e da quell’esplosione, In guerra. Vita e battaglie del fotoreporter sopravvissuto a un razzo dell’Isis, edito da Cairo e scritto da Gabriele Micalizzi con Moreno Pisto.
Capisco che sono grave perché non avverto più il corpo. Penso di essere a pezzi, penso che si è staccato qualcosa. Con la faccia da ebete, una faccia di chi non riesce più a muovere la testa, mi sforzo e muovo il braccio destro, mi tocco, controllo le gambe, il petto, mi tasto il giubbetto – testa di cazzo, mettiti le protezioni –, tasto il braccio sinistro e sento che è spappolato ma attaccato. Morirò con tutte le parti attaccate, almeno questo. Spero mi mettano un completo bianco, l’ho sempre voluto, un completo bianco.
Il viaggio a ritroso prende le mosse da qui, a partire dal gesto istintivo di accendersi un’ultima sigaretta prima di andarsene via. Micalizzi riparte da una data, dal 24 gennaio 1984, dalla sua nascita presso l’Ospedale Niguarda a Milano, e dai ricordi, quelli personali e famigliari, dalla casa di Monza e dall’avvicinamento alla fotografia, dal lavoro per la cronaca e dal primo reportage per la rivista “Il Fotografo”.
Con un salto temporale, il racconto passa in Afghanistan – siamo nel 2010 – Paese di cui, fino a quel momento, conosceva qualcosa letto su una guida Lonely Planet. Dell’Afghanistan, nel nugolo di ricordi e impressioni e immagini impresse nella retina fotografica c’è la visione di bambini in fila a piedi nudi nella neve per la distribuzione del cibo: uno di loro indossava un completo leopardato di Versace. A seguire arriva la Thailandia, nel periodo della rivoluzione delle Camicie Rosse, poi le primavere arabe, la Libia e l’Iraq, poi ancora Palestina e Siria. Ogni volta Micalizzi corre sul teatro della guerra e degli scontri per testimoniare, per raccontare l’orrore e i crimini della Storia, “che non si scrive con la penna ma con il sangue”. Il viaggio nell’orrore, che ogni volta lo espone al rischio di morire che lo avvicina alla pallottola o alla bomba che potrebbe spazzarlo via, lo porta ad assistere alla morte di donne uomini e bambini, sempre. E alla scomparsa di un amico fraterno. La Storia si srotola attraverso l’ascesa dell’Isis, prende il volto di vecchi conflitti mutati nella loro natura ma diventati cronici, o si dispiega in guerre nuove e terribili, che mettono alla prova con il loro infinito orrore. Eppure, scrive Micalizzi, “Noi siamo reporter di guerra. Reporter. Di. Guerra. E sappiamo che morire è un’eventualità pari a quella di fare una buona foto. Può non succedere, ma può anche succedere”. Micalizzi compie tutto il suo percorso, rischiando continuamente la vita ma, anche, facendo fede al principio del “Restiamo umani”, che sembra comandare non solo il suo sguardo fotografico ma anche la riflessione e la “morale” da ricondurre a uno dei lavori più pericolosi del mondo.