Madri e figlie. Ferite che sono legami. Una condanna privata che si fa portavoce di una storia collettiva.
Un legame di sangue da cui non ci si può sottrarre, ma che contiene al suo interno il germe di una rivelazione.
Si muove per opposti, il romanzo di Gaia Giovagnoli, è un organismo atipico, fatto di moti circolari che ruotano attorno a unico fulcro centrale. Il rapporto tra Caterina e sua madre, il peso di una eredità scomoda.
Caterina, un nome scomodo, perché santa e strega allo stesso tempo. Oggi invece è solo una ragazza in fuga da un destino inquisitore.
Una storia scritta nel sangue, che parte da un unico corpo-chiave per dilatarsi e contrarsi ritmicamente come una medusa, inglobando, fagocitando, dando vita a un contesto onirico dal fascino ipnotico e ammaliante.
Tutto accade a Coragrotta, un borgo-personaggio circondato dai boschi. La location perfetta per una pellicola di Robert Eggers, anfratto di un mondo che strizza l’occhio alla tradizione più classica del folk-horror, arcipelago di esistenze travagliate che mette soggezione a ogni ora del giorno. Un luogo in cui tutto sembra volerci dire altro, circondato da una natura senziente testimone di fatti a noi proibiti.
Non sappiamo cosa accada di notte in mezzo a quei boschi, intravediamo sagome sfocate, omuncoli pallidi, lupi affamati. Nella terra attorno al paese crescono funghi “che sanno di latte e mollica appena sfornata”, le strade sono piene di gatti randagi dai nomi bizzarri.
Gli abitanti di Coragrotta sono per la maggior parte donne dal capo rasato che hanno rinunciato a ogni forma di femminilità per dominare una mandria di uomini docili e sperduti che loro stesse definiscono “svardùni” (svuotati). Una tribù che monta “con la calma che hanno le bestie”, comunità chiusa e indipendente, da cui la madre di Caterina era scappata, giovane e incinta, giurando a se stessa di non farne mai parola con sua figlia.
Invece Caterina sarà costretta a tornare, mente e corpo, in quel luogo da cui tutto ha avuto origine.
Sarà l’incontro con l’antropologo Alessandro Spina a convincerla a riaprire il cassetto di quei ricordi scomodi, in parte sconosciuti, in parte solamente sepolti. C’è qualcosa che non capisce nelle lettere di quello strano studioso, le testimonianze sono confuse e sempre più frammentate.
Caterina dovrà ripercorrere il passato della sua famiglia, scoprire di che materia è fatta quella condanna che parte dal corpo, dalla malattia del corpo di una intera comunità in cui le figlie si fanno carico delle maledizioni delle madri e il tempo è una filigrana sospesa che attinge da un immaginario di figure ottocentesche.
Ma riduttivo e sbagliato sarebbe limitarsi a circoscrivere all’esoterismo tutto quello che accade, perché l’universo imbastito dall’abile penna dell’autrice è qualcosa che sfugge alle singole definizioni.
Il rapporto tra Caterina, sua madre e le dinamiche di potere all’interno dei nuclei familiari dei paesani si fanno metafora di una malattia sociale ben più ampia.
Si parla di alienazione, disturbi corpontamentali, fede, misticismo, il tutto filtrato da una luce ambigua, in cui le nuove tecnologie si fondono con le credenze popolari e tutto viene esaltato da una prosa che non tradisce le sue origini. Infatti l’autrice nasce come poetessa e questa sua inclinazione verso la raffinatezza del verso, traspare in ogni pagina.
L’orrore descritto in Cos’hai nel sangue non è mai esplicito, ma sempre magistralmente sussurrato. Come quell’ombra obliqua che Caterina percepisce, a volte, negli angoli bui della sua stanza, quando cala la sera e tutte le certezze del giorno vengono a mancare.
Si arriva all’ultima pagina con quello stesso brivido nelle ossa della protagonista e un senso di spaesamento che permane nei giorni. L’idea di essere stati testimoni di qualcosa d’inspiegabile, atipico, destabilizzante come la folgore di quell’ultimo bagliore che abbatte ogni illusione, mettendoci a nudo davanti all’impotenza delle nostre decisioni.
Stefano Bonazzi
Recensione al libro Cos’hai nel sangue di Gaia Giovagnoli, Nottetempo 2022, pagg. 260, €15,00