È una poesia a doppio taglio, quella di Lorca. Poesia di aranci, ulivi e zagare, di acque chiare e corsi piani sotto il sole. È, pure, poesia di pianto e sangue, di tremiti e sospiri, di grida e uccelli prigionieri nel buio. I fiumi, il paesaggio, la chitarra, perfino il silenzio: tutto vibra di un’energia arcana, una nota malinconica e oscura, come un presagio di morte piantato perfino nella vita più pura. Il “Poema del cante jondo”, che prende il nome da uno stile vocale del flamenco (‘canzone profonda’ o ‘primitiva’, “che si accosta al ritmo degli uccelli, alla musica istintiva del nero pioppo e delle onde”), segna uno spartiacque nella produzione del grande poeta spagnolo: la casa editrice Passigli lo ripropone in una versione arricchita da un testo esplicativo di Lorca, “Architettura del cante jondo”, e curata da Enrico Di Pastena e Valerio Nardoni, autori rispettivamente della postfazione e della prefazione – entrambe illuminanti – all’opera. Scritto nella prima metà degli anni Venti e pubblicato nel 1931, il “Poema del cante jondo” è una raccolta per lo più di bozzetti, schizzi che si succedono a ciclo continuo come su una rotativa e sono composti di versi frammentari e penetranti, che si conficcano come colpi di lama. “Dappertutto/ io/ vedo il pugnale/ dentro il cuore”. Quel pugnale, percepito ovunque intorno, si ripete nei versi di Lorca, colpi su colpi, rapidi e precisi come stilettate. La poesia agonizzante del “giovane prodigioso” di Fuente Vaqueros racconta l’agonia di tutta la Spagna, attanagliata da una grave crisi economica e dal 1923 soggetta al regime autoritario di Miguel Primo de Rivera, tiranno del Paese con la complicità di re Alfonso XIII. Le libertà costituzionali sono sospese, la dialettica politica annullata, voci autorevoli della cultura come il filosofo Miguel de Unamuno vengono rinchiuse nella gabbia del confino. Lorca assorbe questi eventi e li rielabora proiettandoli nel suo ‘scenario interiore’, quello del folklore andaluso e di una natura primordiale e bambina, di oggetti captati come scaglie di assoluto, di un inesauribile, disperato furore di vita. “Le montagne guardano/ un punto lontano”; le fanciulle hanno in mano pugnali; la chitarra piange “la sera senza domani”, “piange monotona […] come piange il vento/ su distese di neve”; gli ulivi disegnano un nero arcobaleno nella notte azzurra; “l’illusione dell’aurora/ e i baci/ si dissolvono”. Solo un deserto resta, infine, “un ondulato deserto” che si distende da ogni parte, e poi un balcone aperto, pronto ad accogliere il cielo di una nuova alba. Tutto il paesaggio ha in sé morte e vita, la morte nella vita e la vita nella morte: quella stessa che tornerà a brillare nel 1930, poco prima dell’uscita della raccolta, con l’avvento della Repubblica. In quest’affascinante duplicità di temi e sentimenti il “Poema del cante jondo” traccia la sua rotta originale. L’escena e il diálogo che chiudono la raccolta, in particolare, contengono l’inizio di una transizione. La poesia di Lorca diventa teatro, “si eleva dal libro e si fa umana” (come Lorca stesso sottolineava in un’intervista degli anni Trenta). La “Scena del tenente colonnello della guardia civile”, che lo vede contrapposto alla romantica figura di un gitano, è lo scontro personificato tra la poesia, che abbraccia “qualunque cosa” e uccide la guerra, e l’ordine tronfio dei militari. È – alata e a tratti surreale – una denuncia contro l’arroganza e la violenza del potere. Le visioni richiamate dal gitano, le metafore che brandisce nell’aria, sono armi di fantasia che uccidono la tempra sterile del colonnello. Mal ne incoglie al ribelle, però… Viene picchiato a morte, chiede acqua e riceve ceffoni. Pur avendone testimoniato la forza, l’autorità cieca disprezza la poesia. Quanto disprezza il bisogno, tanto resta insensibile all’acqua: quella che disseta e quella in cui galleggiano le barche dei sogni. L’ultimo componimento del Poema, “Dialogo dell’Amargo”, si presenta come un’autentica canzone autobiografica. L’Amargo del titolo ha nel cuore un nocciolo di mandorla e oleandro; cammina nella notte fatta per dormire, in cui risplende appieno l’argento degli uliveti. Cammina nel folto delle metafore dell’estate andalusa. Non parla: il pensiero si posa come un gabbiano, le ali spiegate, su ogni suo sospiro. Puro, lieve, l’Amargo è un simbolo dell’essenziale: di chi spezza il pane con le mani e non conosce coltelli e gira a piedi per il mondo finché i piedi non gli fanno male. Incontra un cavaliere che gli offre di salire in groppa al suo destriero per raggiungere più in fretta Granada. Vuole vendergli un coltello, con lusinghe e suggestioni. L’Amargo resiste, rifiuta, pone domande via via più colossali, che restano senza risposta. Come echi si ripetono nel vuoto. Alla fine la concitazione e il miraggio di Granada propiziano l’irreparabile. Lo zingaro monta in sella, compra un coltello e si ‘perde’. La scena finale lo descrive avvolto in un lenzuolo ( come il poeta stesso nella bellissima “Memento”) con accanto una croce e un coltellino d’oro. Parte un accompagnamento funebre, ma la madre del morto avverte che non bisogna piangerlo. Non dissolto, non scomparso: l’Amargo è sulla luna. Lorca lo raggiungerà nell’agosto del 1936, col fuoco ancora nelle mani e il cuore ferito da spade d’azzurro.