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Gente di Dublino: Saoirse (Uno degli incontri con Joyce)

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SaoirseSaoirse ha un naso appuntito su un viso pallido con un po’ di lentiggini che le impolverano abilmente gli zigomi. Tira su col naso. Tira a campare. Tira calci alla vita.

La conobbi nel gennaio del 2000 a Dublino, quando ancora vivevo ad Amsterdam e nessuno era morto all’avvento del terzo millennio e non c’era stata nessuna apocalisse e beati e santi continuavano a essere nominati tranquillamente… e noi stavamo morendo appresso alle multinazionali alle quali vendevamo sangue e cervelli in cambio dei soldi che poi barattavamo con alcol e scampoli di vita durante gli effimeri weekend.

Saoirse ha mani affusolate dalle unghie mangiate che ha promesso di non mangiare più e piedi bianchi con smalto rovinato sulle unghia che ha promesso di rimuovere – perché lo smalto non la fa più sensuale ma solo più puttana, dice, e sensuale con il proprio uomo lo si è in altri modi… non di certo grazie a uno smalto ai piedi.

Ero arrivato a Dublino in un grigio e freddo pomeriggio tipico del dopo-Epifania, con l’entusiasmo scemato, i bagordi delle feste già digeriti e una tristezza-depressiva aleggiante per la città sotto nuvole nere, sopra i cuori, tra i rivoli sotto il marciapiede.

Ero partito dall’Olanda con Niall, l’amico irlandese del “dipartimento UK” della multinazionale. Avevamo aspettato che gli altri, quelli più “anziani” si godessero le loro feste natalizie a casa, e che finalmente anche le nostre ferie fossero autorizzate.

Saoirse ha occhi cerulei annacquati dall’alcol e da facili commozioni. E piccole borse sotto gli occhi contengono le esperienze e tutto il sonno perduto e la smania di amore mista a tutto il sesso represso per anni per colpa della chiesa cattolica.

Dopo essere atterrati, Niall ed io ci dirigemmo verso uno dei bar dell’aeroporto. Guinness irlandese… non la migliore ma, abituati com’eravamo a quella d’importazione… finalmente! Tra un sorso e l’altro Niall mi disse che quella sera saremmo andati alla festa di compleanno di Aoife, una sua vecchia compagna di scuola e di crescita.

Arrivati in città, saltammo giù dall’autobus a due piani e ci procurammo quattro cheeseburger del pagliaccio a testa, e fu cena e fu sera… e il buio cominciò ad addentare il grigio… e l’off-licence brillò scintillando di mille bottiglie e mille etichette colorate e avemmo la nostra uisce beatha. E anche i nostri occhi brillarono. Ci dirigemmo così alla festa sulle ali dell’entusiasmo. Le ferie erano cominciate.

dubliners-james-joyceSaoirse ha un collo esile che sembra si possa strozzare con una sola mano e che stona con il piglio fiero che la fa sembrare più alta dopo aver deglutito… e il pensiero della strozzatura muore tra le fauci di un desiderio sessuale famelico – baci-morsi e lingua e succhiare e annusare e sfregare, strozzano il collo elfico.

Arrivammo a casa di Aoife quando gli altri erano già tutti lì. E ci aspettavano. Sapevano che Niall sarebbe tornato dall’Olanda per qualche giorno e si sarebbe portato dietro il suo fratello siciliano. Piacere – ciao – oh, allora sei tu quello di cui mi parlavano. Abbiamo portato una bottiglia di whisky – ok apritela – mettetevi comodi – come sono contenta che siate riusciti a venire!

«Ciao… io sono Saoirse».

Saoirse ha caviglie esili dal malleolo sporgente che spariscono pulite dentro scarpe sporche.

Ci sedemmo a terra. La moquette sapeva di fumo, di birra, di calze, di casa, di gente, di sguardi, di parole non dette, di parole giuste, di parole stupide, di parole sbagliate… la moquette sapeva di parole, e di whisky che cominciava a girare come una pipa della pace che amplifica la pace e il caos e la parola… e la voglia di assorbire gli uomini e le donne e le loro storie.

Tutta l’Irlanda era là fuori a fare i conti e gli scontrini del boom promesso e in procinto di esplodere. I famosi “dieci anni esentasse” catapultavano decine di multinazionali e decine di migliaia di giovani nella terra delle banshee e dei lepricauni. Dublino custodiva il calderone delle promesse dorate ed era lo spirito del Natale futuro. E intanto teneva in grembo le migliaia di culle di una città giovane: i suoi pub, i suoi club, le sue discoteche, le sue case dalla moquette navigata, le sue mostre, i suoi ettolitri di alcol… e i suoi mostri.

Saoirse ha piccoli puntini arrossati dalla depilazione su stinchi e polpacci e sulla fede cattolica.

La serata sparì dentro una notte inglobata da una nebbiolina umida là fuori la finestra appannata e da una perturbazione di voci e fumo all’interno. Le note movimentate lasciarono posto a quelle sulla frequenza di Tom Waits.

«Qui non c’è posto per dormire. Andiamo da me. Ho un divano… e qualcos’altro da bere… e diversi libri tra quelli di cui abbiamo parlato stasera».

Saoirse ed io ci tuffammo nel gelo e raggiungemmo il Liffey silenzioso e vecchio e sornione… e consapevole. Vedemmo un taxi “spento” che avanzava verso di noi. Fermo! Facci salire! Dublino-nord – via – verso la North Circular per favore.

Saoirse ha piccole ginocchia appuntite sotto cosce bianche velate da una peluria bionda. Il freddo si è mischiato al latte e ha levigato la sua pelle rendendola chiara, dura e morbida allo stesso tempo… e whiskey e miele e pesca colorano il muschio profumato della peluria rendendo morbido il marmo della carne e le curve perfette che dal ginocchio salgono su fino alle natiche e agli slip economici.

Entrammo nel suo monolocale e Saoirse accese la piccola stufetta elettrica sul pavimento. L’unico divanetto lercio si trasformò in letto a una piazza e mezza. Un cucinino con due piccole piastre elettriche a lato. Vestiti, scarpe e biancheria intima sparpagliati sul pavimento ammaccato da fantasmi di passaggio negli anni… quattro pareti dalla carta scrostata da frustrazioni e vita dura. Tre metri per quattro. Dodici metri quadrati che contenevano l’esistenza di Saoirse senza neanche un frigo che potesse preservarle l’anima dalla decomposizione. E poi, posacenere colmi, e dischi e musicassette – ma il piccolo stereo accettava solo le cassette. Un unico lavandino senza acqua calda con dentro coppie di bicchieri e piatti e posate. E silenziose bottiglie semivuote a terra accanto alla parete, come statue dell’Isola di Pasqua che mute davano le spalle al mare del caos… sul quale libri-barca macchiati di cibo e liquidi naufragavano verso la prossima lettura. E tra essi, “Dubliners” di Joyce. C’ero dentro. Ero già fuori. Ero già tutto. Eravamo già tutto. Lei era già tutto. Niente finestre. Il cesso in comune con gli altri monolocali moriva nel corridoio dalla moquette bordò, qualche porta oltre la nostra.

Saoirse ha le clavicole sporgenti sotto un seno piccolo e perfetto e capezzoli pallidi come il sole dietro le nubi dell’alba umida. E piccoli puntini un po’ più scuri sparsi nell’aerola e nei pensieri.

Parlammo un po’, seduti all’interno della sua scatoletta, e mi disse che veniva da una famiglia cattolica della contea di Kildare un po’ nell’entroterra a ovest di Dublino, e sfilandosi le scarpe vidi collant forzati sotto i jeans da mercatino. Chiesi dell’acqua e ricevetti una bottiglia di vodka liscia. Tracannai un sorso copioso e mischiai il bruciore dell’esofago alle labbra di Saoirse, al suo fiato-saliva alcolico e alla sua lingua frenetica. Una musica di un gruppo francese di cui non ricordo più il nome cominciò a scorrere dal basso e fu investita dai nostri vestiti che fendettero il freddo non ancora domato dalla stufetta infantile. Nella fioca luce vedevo la pelle di Saoirse diventare rosea sotto il tocco delle mie mani, creando chiazze sul quel corpo sacro che già adoravo con tutto quello che era rimasto della mia vita. Saoirse prendeva vita. Avrei già dato la mia vita. Lei era già la mia vita.

Saoirse ha un ventre piatto con un ombelico bizzarro al centro che sembra l’inizio degli anelli che si allargano dopo la caduta di un sasso su uno stagno senza vento.

Gli schiamazzi del corridoio non si curarono dei nostri rumori né di tutte le frasi stupide che dicemmo divorati da una chimica fantastica. Cominciammo a saziarci bevendo e respirando e assorbendo i nostri profumi, i nostri cattivi odori e le speranze generate dall’innamoramento incosciente. Un colpo di fulmine che scolpiva nella mente gli odori e i sapori dei piedi, dei capelli, delle dita sporche, dello sfintere, dei genitali, e i solchi delle unghie che si aggrappavano al bello caduco e balenante senza il quale saremmo morti ancora… senza il quale avremmo continuato a morire alla ricerca di quei lampi di vita che giustificassero il giornaliero temporale.

Saoirse ha un monte di Venere sacro e bello come un altare sul quale giurare totale ed eterna devozione.

La notte e l’amore finirono nell’ultimo sorso di vodka, nei passi dietro la porta, nel portone dello stabile che sbatte e nel buio che inghiottì la mente.

james_joyceMi svegliai nudo e semi-congelato e dopo aver indossato qualcosa cercai il bagno, lo trovai e sperai che il flusso dello sciacquone si portasse via anche i coltelli che avevo conficcati in testa assieme alla nausea, alla sete, alla fame… al fastidio delle ragadi. Osservai i miei piedi nudi sul pavimento umido d’acqua stagnante e piscio condito da peli e capelli. E dopo uno sguardo alle macchie alle pareti e al piatto della doccia decisi che non mi sarei lavato. Tornai nei dodici metri quadri dell’amore e vidi il bagliore del corpo nudo e bianco di Saoirse ancora disteso e incurante del freddo. Piccole vene azzurre disegnavano fiumiciattoli sui seni, sulle caviglie, dietro le ginocchia. Dimenticai presto il bagno-fogna: la mia sporca banshee era lì nuda, sacra e beata ed io l’amavo così tanto che probabilmente dovevo essere già morto. La morte deve essere piacevole come l’apice della gioia sessuale e come l’amore più intenso – pensai.

Saoirse ha i peli pubici castano-chiaro tagliati in modo da sembrare un pennacchio sopra il sorriso verticale chiaro e perfetto delle grandi labbra… Saoirse è la gioia chiara del sesso e il santo sorriso dell’anima.

Attraversammo il mattino di una Dublino fatta di cielo cangiante e case basse e malandate e retaggi di un’occupazione inglese che sarebbero apparsi ancora come finestre nel mio futuro prossimo e lontano. Mangiammo un hot dog con cipolla a cubetti e ketchup mentre gli sguardi sostituivano le parole. Sembrava conoscessi Saoirse da sempre… da vite passate… da morti dimenticate. E intanto, avevo totalmente dimenticato che tra un paio di giorni sarei tornato in Olanda. Avevo già dimenticato che quella che stavo già vivendo era una di quelle storie che uccidono lentamente, in un modo o l’altro.

Saoirse… dalle costole scolpite, dalla cresta iliaca sporgente e dalle orecchie meravigliose.

Mi chiesi come poter ritrovare Niall, ma poco importava al momento. Comprammo altro cibo pronto, una bottiglia di whisky e lattine di birra. Tornammo nella scatola dell’amore da dodici metri quadri e feci l’amore con l’Irlanda, e le entravo dentro e lei mi entrava dentro con tutta la sua miseria, con tutta la sua magia… e il mio spirito si perse tra la pioggerella obliqua e quel cielo cangiante che avrei custodito per sempre nel cuore… ma ancora non lo sapevo.

Sentivo il bisogno di dormire e di una doccia calda. La notte mi mantenne sveglio, sbronzo, sporco e beato.

Saoirse… della quale respiro il respiro.

Tornò la luce del giorno. Devo trovare Niall – le dissi. Domani parto… pensai… ricordai… e permisi alla consapevolezza di ferirmi più di quanto facesse la realtà normalmente.

«Oggi devo incontrare uno zio… vieni anche tu… è un tipo a posto… sai che ha persino un anello che gli ha regalato Bobby Sands?», mi disse lei, senza aspettare risposta. Finimmo in un pub semivuoto e dal respiro lento nella penombra dell’ora di pranzo.

Zio Derek sedeva già al tavolino accanto al camino con la sua pinta di Guinness sicura di essere mezza vuota. Ciao – piacere – sedetevi – che prendete? – Guinness-Guinness – hey Ciaran! tre pinte di Guinness per favore. E le pinte arrivarono dopo l’attesa consueta e cominciammo a bere e ne arrivarono altre e gli occhi di zio Derek ci osservavano in silenzio, per poi perdersi nel vuoto e poi ancora, un paio di volte, e alla fine non gli fu difficile capire che ero il devoto amante della nipote.

Alla fine del primo tempo di una partita dello United luminosa ed elettrica dentro schermi appesi alla parete, zio Derek mi posò una mano sulla spalla e con l’altra sollevò la pinta: salute amico mio – mi disse guardandomi negli occhi. Ero stato accettato.

Uscimmo dal pub che era già buio e la sera era già ubriaca.

Saoirse ha un passo lento e leggero e una voce bassa e scorre sospesa tra le strade di Dublino e il sangue d’Éirinn.

Passammo la serata nudi e digiuni, abbracciati a cercare di combattere il freddo interiore. Tutto ciò che desideravo era il mio letto in Olanda, fare l’amore con Saoirse all’infinito, e morire dentro una doccia pulita dopo aver cagato in un cesso solo mio.

Ci addormentammo in un sonno buio con il cuore pieno di incubi e l’anima piena di sogni. E il mattino arrivò puntuale e senza preavviso con tutte le sue ombre, tra le quali quella dell’aereo in partenza per il paese piatto.

Saoirse con gli alluci simili ai pollici e con gli occhi nei quali annego e rinasco.

frases-joyceRitrovai i resti di me stesso e di Niall alle partenze internazionali dell’aeroporto. Lasciai Dublino, prigioniero in libertà condizionata. Mi allontanai dal grigio irlandese per quello di Amsterdam. In qualche modo raggiunsi casa. Entrai e piansi sotto la doccia e andai a dormire. Mi svegliai alla catena della multinazionale senza più l’odore di Saoirse addosso – senza più l’Irlanda attorno… e con le stesse tatuate alla bocca dello stomaco.

Saoirse, il cui nome significa Libertà. Saoirse con il grigio-chiaro elfico negli occhi e nella rugiada, tra le lacrime, tra le cosce, nel sudore dell’anima.

Passarono mesi dalla corrente alternata e dal dolore costante. Saoirse venne a trovarmi in Olanda un paio di volte ed io tornai a Dublino l’anno successivo, e vidi la sua poesia svanire nell’elettricità anfetaminica con la colonna sonora di un’odiosa ridondante musica da discoteca. Niente più libri. Il mio elfo diventò una strega-pagliaccio. Joyce era diventato nient’altro che una statua in Earl Street.

«Ti ho tradito amore mio… ero strafatta… non lo ricordo neanche… ma so di averlo fatto…»

Saoirse, con naturale predisposizione alle prigioni.

Dimagrii nonostante l’alcol: l’anima anoressica e l’animo in putrefazione. Segnavo sul calendario i giorni che passavano in attesa del prossimo sorso… tra sorsi già amari.

Uccisi il tempo che riuscivo a uccidere scrivendo e leggendo. Non riuscii a masturbarmi neanche una volta pensando alla donna che amavo… che amavo ancora. E in un bel giorno con il sole che urlava a tutti gli olandesi di denudarsi, ricevetti una lettera da Londra: Saoirse si era trasferita da un amico, stava cercando lavoro e aveva intenzione di rimanere in Inghilterra. La poesia morì definitivamente quel giorno. Per l’amore ci vollero un po’ più di tempo e varie autocommiserazioni. Comprai un’edizione di Dubliners in lingua originale e la seppellii sotto le Operette Morali del James italiano.

Qualche mese dopo, Niall mi raccontò che Saoirse aveva trovato lavoro e che conviveva con un ragazzo inglese. Lei mi chiamò una notte, di lì a poco, da un locale. Sentivo dentro la cornetta la musica alta e il brusio umano attorno a lei. Biascicò un monologo che ascoltai in silenzio e che non riuscii a capire. Colsi soltanto la risata isterica e lo sforzo del pianto. Dopo un paio di minuti riattaccai, e quella fu l’ultima volta che sentii la sua voce alterata e infiammata dalla propria consapevolezza di ciò che era stata e che non era più. Mi rigirai e rimasi a reggermi mani e pensieri. Quella notte sognai di succhiare i capezzoli di Saoirse mentre il suo seno sanguinava da varie lacerazioni.

Saoirse, che mi aveva imprigionato cuore, cervello, sesso e budella e che poi li liberò sacrificandosi al dio che ha salvato la regina… sacrificando le due metà di cuore che naufragando diventarono le nostre isole sacre. Lontane l’una dall’altra.

Ed io restai in Olanda ancora per un po’, lontano da isole e cuori.

Un giorno sarei andato a vivere a Dublino, ma Saoirse non ci sarebbe stata più. Sarebbe stato troppo tardi. Sarebbe stato meglio così. Forse.

Saoirse piange lacrime di nuvola e marciapiede sotto un cielo che non cambia più.

Francesco Canino

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