Una nuova versione delle “Quaranta poesie” (che Antonio Porta aveva iniziato a tradurre) restituisce la cristallina voce del grande autore austriaco per la nuova epoca.
Esistono poeti che parlano ai lettori – per meglio dire, ai loro testimoni – come dall’indomani di una catastrofe: dall’opera di questi autori sembra filtrare la misteriosa grana del tempo, da cui le cose si rivelano.
E’ il caso, fra pochi altri, di Georg Trakl, del quale l’editore Giometti e Antonello ripubblica oggi “Quaranta poesie” già scelte nell’89 da Antonio Porta quale lascito della sua attività di poeta e traduttore.
Nella veste italiana di Dario Borso – che gareggia per cristallino nitore con l’originale tedesco – queste quaranta liriche attraversano tutta la breve stagione compositiva del grande poeta austriaco e fungono da segreta ossatura all’intera sua opera.
La nuova traduzione rende, come raramente prima avvenuto nella nostra lingua, quasi tutta la cifra della scrittura e del linguaggio trakliano. Grazie a questa edizione – splendida anche nella grafica – il lettore italiano potrà finalmente apprezzare tutto il numinoso alone di metafisico stupore che la rarità dei verbi al modo finito delle liriche di Trakl serba al lettore tedesco. Tratto saliente appare poi la prevalenza dei sostantivati sugli aggettivi, che denotano la suggestiva assolutezza delle scene, poiché una certa parte del dettato trakliano è giocata sulle frasi nominali.
Questo al livello più elementare della lingua. Ciò che però la nuova traduzione mette ancor più in risalto è poi l’arcano isolamento dei personaggi che attraversano le strofe, popolando fondali e scene semideserti. Tra essi occhieggiano fuggevoli figure archetipiche, come ad esempio, in “Am moor” (“Nella palude”, pagg. 64, 65):
“Viandante nel vento nero; piano bisbiglia il giunco secco/nella quiete della palude. Per il grigio cielo/passa una fila di uccelli selvatici(…)
oppure, citando un altro dei vertici dell’espressionismo trakliano, alcune strofe di “Helian” che si susseguono come grani di un rosario con cui si invochi il Deus absconditus:
“(…) Bello è l’uomo e visibile al buio,/quando stupito muove braccia e gambe,/e in orbite purpuree quieti roteano gli occhi./Al vespro lo straniero si perde in nero sfascio novembrino,/ sotto ramaglia marcia, lungo muri gonfi di lebbra/ dove prima è passato il fratello santo,/immerso nel soave arpeggio della sua follia/o come finisce solo il vento della sera(…)”
La costitutiva solitudine degli attanti in Trakl determina il senso, tipico nelle sue poesie, di un “tempo franato”, in cui il ricorso alla frase nominale tratteggia una sorta di reiterazione nelle scene e nei paesaggi, e dove ogni figura campeggia con inattesa potenza epifanica. Sembra ci si ritrovi non tanto alla fine del tempo, quanto sul ciglio di un’epoca in rovina, in cui l’individuo viene reso a un dolore assoluto e sovrapersonale.
Tutto ciò avviene, com’è ovvio, attraverso la parola: parafrasando Heidegger, che in “Unterwegs zur Sprache” (In italiano, “In cammino verso il linguaggio”) gli dedica molte memorabili pagine, la parola del poeta richiama il mondo dalle profondità della sua inesperibile lontananza. Nella sua solitaria ossessione il poeta è l’unico a poter ricomporre quel che il filosofo chiama “il quadrato del mondo”, l’ordine degli elementi originari cui l’umano, attraverso il senso del sacro, compartecipa. Un’altra cifra di Trakl sono gli audaci cromatismi simbolici, le sinestesie spesso giocate sui colori di base – in un raggelato fauve –delle ombre che popolano le sue liriche. Ad esempio in “A Hellbrunn”, pag. 109:
“(…) seguendo l’azzurro lamento della sera(…)”
o in “Il cuore”, sempre insistendo sull’azzurro e sulla sera, pag. 117
“(…) l’azzurra colomba della sera…”
O, ancora, in “Pace e silenzio”, pag.77
“(…) il nero volo degli uccelli.
Ma, come il lettore potrà agevolmente notare, si offrono il rosso, il bruno, il bianco, e tutti assumono un potente senso espressivo: un senso condiviso coi massimi pittori dell’epoca, l’amatissimo Kokoschka in primis.
Così, il poeta appartato, cui Heidegger riconosce il sentimento della lingua di un popolo, che in prospettiva costituirà il segmento di congiunzione tra Holderlin e Celan, è la voce in cui si raddensano tutte le angosce di inizio ‘900.
In ciò, il poeta morto tragicamente a soli ventott’anni, quasi per sua stessa immedesimazione col cataclisma della Grande Guerra, rassomiglia ad un’altra figura-chiave della cultura germanica: quel Faust (evocato tra l’altro nel junghiano Libro Rosso) cui un mefistofelico destino indichi il modo di accedere al regno delle Madri per meglio incarnare lo spirito del tempo.
Ed è il prodigio di un Trakl che – mai abbastanza compreso per altissimo vaticinio lirico, quasi fosse il più veritiero diapason della tragedia – viene reso magistralmente nella nostra lingua, dandoci appuntamento al prossimo passo, raggiungendo – attraverso la vertigine della poesia – la profondità del nostro prossimo respiro.
Insomma, questa splendida edizione delle Quaranta poesie raggiunge lo scopo di rendere, forse per la prima volta, il grandissimo poeta di Salisburgo nostro contemporaneo: libro tanto più necessario perché tutto il suo potenziale evocativo rivela i profondi risvolti di un’epoca solitaria e angosciosa come quella che stiamo vivendo.
Vincenzo Di Maro