Specie di spazi rappresenta il lavoro svolto da Perec all’interno del progetto rappresentato da Cause commune, rivista che lo impegnò, accanto a Paul Virilio e Jean Duvignaud, tra il 1972 e il 1974. Un lavoro che, più di tutti, ha a che fare con l’indagine sociologica e antropologica. È lo stesso Virilio a contribuire alla ricostruzione della genesi del libro: «All’origine di Espèces d’espaces c’è una mia commissione. Chiesi a Perec di fare per lo spazio l’equivalente di quello che aveva fatto, in Les choses, per le cose. Mi rispose che avrebbe scritto un “bestiario di spazi”, che avrebbe mostrato diverse specie, come si fa con le differenti specie d’animali».
L’approssimarsi di Perec allo spazio pone come premessa metodologica la necessità di descriverlo. La sua lente di ingrandimento mette a fuoco anche i particolari più insignificanti, estrae dal contenitore che è lo spazio tutto ciò che vi è contenuto, perché solo in questo modo potrà padroneggiarlo, trasformarlo in qualcosa di comprensibile, di attraversabile. L’analisi del dato spaziale, infatti, coincide in Perec con un’indagine del quotidiano, con il fine di «intraprendere un’investigazione della vita quotidiana a tutti i livelli, nelle sue pieghe nascoste e nei suoi anfratti generalmente trascurati o rimossi».
All’interno di questa riflessione, «lo spazio che accoglie gli oggetti diviene protagonista in quanto unico garante dell’ordine del mondo, unica restrizione posta dall’autore al dispiegamento incontrollato del caos», perché, in Perec, l’interrogazione dell’infra-ordinario non si limita all’osservazione e alla descrizione degli oggetti nello spazio, ma è anche una rassegna dei gesti, delle abitudini e dei rituali che contraddistinguono l’individuo nello spazio.
In Perec, lo spazio ha bisogno di limiti, di confini, e solo in questo modo sarà possibile individuarlo e riconoscerlo. Lo spazio sconfinato, senza limiti, è una realtà sfuggente, poco riconoscibile anche dall’occhio, per il quale la distanza è concepibile solo in presenza di un ostacolo, di un limite, di una discontinuità, di qualcosa insomma che si frapponga rendendo possibile la misurazione.
La scelta di aprire il libro con la riproduzione della Carta dell’Oceano tratta da La caccia allo snark di Lewis Carroll, un semplice quadrato che contiene il bianco della pagina, è sintomatica del bisogno tutto perecchiano di porre limiti allo spazio, di circoscriverlo, di delimitare ciò che, altrimenti, equivarrebbe al vuoto e, quindi, all’incomprensibile.
Lo spazio che va indagato è, sostanzialmente, quello metropolitano, quello che, eccettuata la campagna, è il teatro della vita della maggior parte di una popolazione appartenente al cosiddetto mondo occidentale. È uno spazio, dice Perec, che non dobbiamo dare per scontato, che ha bisogno di essere osservato e poi riconosciuto, prima di essere indicato come tale.
Fin dal principio lo scrittore parigino procede, nel modo più consono alla sua natura narrativa, a una classificazione degli spazi. Dopo la duplice dichiarazione programmatica della carta dell’Oceano e la definizione del tipo di spazio indagato nel libro, affronta quello che per lui è il primo spazio, che ha presente costantemente quando scrive perché è anche il supporto materiale su cui scrive: la pagina.
Lo spazio, materia di non facile “lavorazione”, è almeno inizialmente uno spazio indistinto, caotico, frammentario. Immediatamente, però, questa dimensione indistinta e inafferrabile trova un confine, un contenimento al suo proliferare irrelato nella stessa operazione della scrittura e della descrizione. La scrittura si carica in Perec di una valenza ordinatrice, in grado di avviare un faticoso ma insostituibile processo di addomesticamento del dato spaziale.
Solo a partire da una delimitazione, o dalle ridotte dimensioni della pagina, lo spazio può configurarsi come una dimensione espandibile, che trova origine da un piccolo big bang iniziale, da un punto relativamente ristretto, per poi dilatarsi, proliferare, espandersi. Lo spazio originario è quello della pagina, si è detto, individuato dalle parole e dai segni di interpunzione e l’atto fisico della scrittura si manifesta come atto generativo dello spazio. Prima della scrittura, c’è il foglio bianco e, quindi, vuoto, desolato, con la scrittura nasce la dimensione spaziale, lo spazio scaturisce come qualcosa di concreto, di manipolabile. La scrittura individua dei confini, un alto e un basso, un sinistra e un destra, dà origine a uno spazio che, sfuggendo all’angustia del foglio di carta, potrà espandersi a sua volta in altro spazio, quello vivente nel ricordo, nelle associazioni. Per Perec, «Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio, nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finché la terra finiva con l’essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di test».
Grazie alla scrittura, per tappe successive, lo spazio di Perec si dilata e si riempie, passa dal biancore del foglio di carta al biancore del letto, poi alla stanza che lo ospita e alla scrivania, poi al palazzo, alla strada, al quartiere e ancora alla città, alla nazione, al pianeta, al firmamento. La scrittura, di volta in volta, traghetta Perec verso uno spazio più vasto: come nelle fantasticherie infantili che partivano dalla pagina colorata di un dizionario illustrato, allo stesso modo, secondo gli stessi procedimenti mentali, da adulto, gli sarà sufficiente partire dalla pagina bianca del foglio di carta su cui allineerà lettere e parole.
Rimangono gli interrogativi sorti intorno all’abitare, sul significato dell’abitare una camera, o un luogo. Perec si chiede se abitare un luogo significhi anche impossessarsene, o quando quel luogo diventi davvero nostro. Attraverso questi interrogativi si passa all’appartamento, alla sua costituzione in stanze e alla loro funzionalità, poi alle porte, che proteggono, separano, bloccano e, soprattutto, rompono e dividono lo spazio. Attraverso scale e muri si identifica il palazzo, che in La vita, istruzioni per l’uso aveva trionfato con la sua vita svelata come quella di un formicaio in un documentario naturalistico. Fuori, delimitata dall’allineamento parallelo di due serie di palazzi, la strada e, tutt’intorno, il quartiere. Il processo di espansione spaziale procede, prende il nome di città.
Le due pagine conclusive di Specie di spazi (trad. Roberta Delbono, Bollati Boringhieri, 1989) rappresentano, forse in maniera definitiva, ciò che Perec pensa dello spazio, o meglio, ciò che i luoghi dovrebbero essere per essere davvero dei luoghi:
«Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti.
Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo».