«Il punto è che abbiamo vissuto, abbiamo fallito tutto ciò che ci siamo prefissati, e siamo esausti». Se l’avventura fosse in qualche modo personificabile, con tanto di “A” maiuscola e, magari, capelli lunghi, fronte ampia, cicatrici sparse, forse dichiarerebbe questo. Si presenterebbe così – al lettore? Al lettore. E ancora, suasivamente: «Gesù, mi verrebbe perfino da dire che talvolta abbiamo sperato».
Gian Marco Griffi ha scritto un romanzo – d’avventura, appunto – ambientato ad Asti durante la tragica parentesi di Salò, raccontando di un giovane soldato col mal di denti che un bel giorno viene investito da un ordine più grande di lui – forse più grande della guerra stessa che, in quegli ultimi mesi, «sta andando a puttane». Nel giro di una manciata di giorni deve realizzare una mappa delle ferrovie del Messico: questo l’ordine, questo il guaio.
Questo, lo si creda o no, il romanzo.
Ma all’orecchio dello scrittore – astigiano, neanche a dirlo – ci sono alcuni dei più grandi autori di sempre, anzitutto sudamericani, in grado di suggerirgli la formula per trasformare la settimana di Cesco Magetti – il protagonista – in qualcosa di straordinario.
Di lirico, ironico e straordinario.
Perché Cesco, mentre assolve all’assurdo ordine militare impartitogli, compie anche il suo romanzo di formazione: verità, amore, odio, rabbia, morte, vendetta. Tutto, in pochi giorni. La vita nel suo svelamento è un pitone lungo qualche metro che lo stritola sempre di più: non c’è modo di liberarsi, c’è solo da aspettare. Cosa? Il destino, naturalmente. L’inevitabile. O, per dirla come Gadda (tra i numi dell’opera), «l’inestricabile gnommero», il quale si traduce in ottocento pagine che potrebbero essere ottomila e che sarebbero potute essere anche ottanta.
Lì dentro, nell’attesa che tutto si compia, sfavillano le storie ferroviarie di “Ferrovie del Messico” (Laurana Editore). Ferroviarie, già, perché «Fino al ’42 tutti i ferrovieri erano poeti. Oppure tutti i poeti erano ferrovieri». Lo afferma Lito, uno dei tantissimi personaggi narranti di questo “romanzo enciclopedico”: è un becchino, è un racconta storie, è una doppia eco di Borges e Bolaño che scaraventa il lettore lontano, lontanissimo dalla piccola Asti, fedele a quella letteratura – enorme, naturalmente – che gira, gira, gira senza mai preoccuparsi di arrivare. La sua lingua è magica, ma è solo una delle tante.
Già, perché “Ferrovie del Messico” è un corpo vivo il cui cuore pulsante è proprio la lingua: è lei la grande protagonista del romanzo – è lei, si potrebbe dire, l’avventura. In questo libro i personaggi si tolgono la lobbia e si aggiustano la martingala dando due colpi al paltò prima di sedersi, in linea con l’epoca grottesca e tragica, grottesca e truce, grottesca e misera che fa da sfondo alla storia: quella dei repubblichini che combattono altri italiani, dei nazisti che “ci tengono per le palle”, dei partigiani nascosti tra Grana e Casorzo. Ma è anche la lingua di Tilde, la stralunata bibliotecaria che finisce lobotomizzata – un po’ Pynchon, un po’ Foster Wallace – e di cui Cesco si innamora d’inciampo e che, per giustificare la sua pazzia, asserisce: «Io abito il mio lirismo per continuare ad amare la vita». Ed è la lingua del Messico pure – delle zuffe durante le finali di jai alai (versione più violenta della pelota basca), dei cristeros impiccati lungo la via, del bambino Feliciano abbandonato senza vita a Santa Brigida de la Cienaga, città invisibile, città mostruosa – e se fosse la Santa Teresa di “2666” di Bolaño? Quella delle migliaia di donne uccise senza un perché? Quella dello scrittore-fantasma Benno von Arcimboldi incarnazione del male assoluto?
Ma è la lingua di Gustavo Baz, soprattutto, il falso alter ego di Gian Marco Griffi, il misterioso autore dell’unica traccia in possesso del soldatino Megetti, il solo indizio, la misera chance che ha per risolvere quel dannatissimo ordine militare che giorno dopo giorno diventa sempre più pressante, al pari del suo mal di denti: trovare l’introvabile libro dal titolo “Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México”.
Introvabile, appunto. Svanito nel nulla e riemerso dall’Ade. Sperso e continuamente narrato. Perché, citando il saggio antropologico-calcistico di Olivier Guez, questo libro è un grande, grandissimo “elogio della finta”. E la sua credibilità sta tutta qui: nella finzione.
Alessandro Galano