“Se non sei in grado di scrivere un racconto che possa eguagliare un pezzo giornalistico allora non sei in grado di scrivere. Tanto vale lasciar perdere”.
Questo il segreto per comprendere tutta la straordinaria modernità di John Cheever, lo scrittore americano che più ogni altro è riuscito a raccontare il sogno infranto della civiltà del benessere.
John Cheever, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e i trent’anni dalla morte, è riuscito come pochi altri scrittori del ‘900 a descrivere la nostra come “una civiltà completata per metà, che annovera grattacieli di vetro, torri di trivellazione, smisurati quartieri residenziali. Un mondo così ricco, equo e realizzato, ma dove nonostante tutto ognuno si sente così deluso”. John Cheever ha raccontato tra i primi il “modernismo della desolazione” e quei “luoghi oscuri” del sogno americano che tanti autori, pensiamo solo a Raymond Carver, avrebbero descritto soltanto decenni dopo.
Cheever ha raccontato tutto questo con il respiro narrativo di un classico e una scrittura che appare ancora oggi molto più moderna di tanti autori contemporanei.
Per celebrarlo Feltrinelli manda ora in libreria le edizioni tascabili dei romanzi “Cronache della famiglia Wapshot” e “Bullet Park”, ma soprattutto “I Racconti”, che appaiono per la prima volta in un unico volume, secondo l’esatto cronologia che diede l’autore quando pubblicò la raccolta nel 1979.
Le sue “ Stories” vendettero 800 mila copie aggiudicandosi in un colpo solo i tre più ambiti premi letterari americani: il Pulitzer , il National Book Award e il Book Critics Circle Award consacrandolo definitivamente tra i maggiori scrittori americani di sempre.In Italia la sua fortuna è stata alterna: l’editoria non è stata generosissima con Cheever (frammentandone l’opera in dosi omeopatiche) e la critica l’ha più commentato che letto.Eppure i racconti di Cheever sono destabilizzanti. Andate in libreria, provate ad aprire una pagina a caso, iniziate a leggere qualche riga e tutto il mondo scaffale delle novità editoriali che vi circondano vi sembrerà scomparire. Perché per Cheever “la narrativa deve illuminare, esplodere, ristorare”. Ed è esattamente questa la sensazione che si ha leggendolo. Illumina perché Cheever riesce a descrivere, con ironia feroce che non diventa mai cinismo, il nostro precariato esistenziale. Oltre il vittimismo di quando i conti non tornano, una sensazione che, tra l’altro, provò in prima persona, essendo cresciuto in una famiglia agiatissima, poi ridotta quasi in povertà dopo la crisi della Borsa del ’29. Per Cheever il vero precariato è accettare una società in cui tutto sembra progredire, ma in cui nessuno progredisce veramente.
Un imbarbarimento dell’umano che è non è dettato unicamente dalla nostra sete ormai inappagabile d’individualismo (i fatti nostri), ma dall’aver sacrificato l’ essere umano per l’animale sociale.
In un passaggio fondamentale dei suoi racconti Cheever scrive: “Erano liberi, e tuttavia si muovevano con tanta non curanza che era come se tutta quella libertà andasse sprecata”. Una frase di potentissima attualità che fotografa perfettamente uno dei problemi del contemporaneo: la troppa libertà.
I suoi protagonisti sono sempre ossessionati dalla “cartilagine del decoro”, da quel sistema delle apparenze che oggi sembra aver sostituito la nostra idea di dignità. Cheever ci racconta come troppo spesso confondiamo il vivere con il tirare avanti e di come siamo stati ridotti a un nuovo (e finto) puritanesimo che confonde la morale con il catechismo. Per Cheever noi siamo “innocenti e condannati” perché curiamo “la nevrosi rifugiandosi nell’ipocrisia dei rapporti sociali standardizzati”, mentre dovremmo avere come priorità “la decisione di tracciare una catena morale dell’essere”. Eppure nei suoi libri, e in questo consiste la loro grandezza, esiste sempre la potenza salvifica della Letteratura. Una potenza che troppi autori contemporanei si dimenticano piangendosi addosso o invocando chissà quale rivoluzione.
In uno dei suoi ultimi racconti, “I gioielli dei Cabot, Cheever scrive:
“I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra”.
Ed è questa la forza che dovremmo cercare nella letteratura. Una critica sociale feroce, ma che non ci neghi mai un lieto fine almeno narrativo.
Perché per il resto ci pensa già la vita “in diretta”, che non è certo grande Letteratura.