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Gian Paolo Serino recensisce Il signore degli orfani di Adam Johnson

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Immaginate “un paese dove non esistono librerie e dove i cittadini non possono confrontarsi liberamente su niente, un mondo dove esiste una sola ed unica versione ufficiale della Storia e dove la propaganda è talmente martellante che in ogni casa c’è una radio obbligatoriamente accesa e sempre sintonizzata sul canale di Stato che trasmette 24 ore su 24 i discorsi dell’unico leader politico che esiste”.
Non è fantapolitica o fantascienza distopica, ma il presente vissuto e raccontato in prima persona da Adam Johnson nel romanzo Il Signore degli Orfani, giudicato il migliore libro del 2012 da venti dei maggiori quotidiani americani (dal Wall Street Journal al New York Times, dal Washington Post al Los Angeles Times) e finalista al “National Book Award” (l’Oscar della critica americana). 
Il romanzo, edito da Marsilio nell’ottima traduzione di Fabio Zucchella, (pp. 554, euro 21) e in uscita contemporanea in altri 12 paesi, ha meritatamente vinto il Premio Pulitzer per la narrativa.
Adam Johnson, nato nel 1966 nel Sud Dakota ma da tempo residente a San Francisco e docente di scrittura creativa alla Stanford University (quella che ha “laureato” Richard Yates, Raymond Carver o Scott Turow), è anche “lo scrittore dell’anno” per i  milioni di lettori di Amazon Usa. Perfino  Michiko Katutani, firma di punta del New York Times e conosciuta come la critica letteraria più feroce degli Stati Uniti, con questo romanzo si è lasciata andare in elogi sperticati scrivendo che “ Il Signore degli Orfani  è un romanzo di grande forza, bellissimo, che apre una spaventosa finestra sul misterioso mondo della Corea del Nord” grazie ad una scrittura che adotta “le tecniche del realismo magico per creare uno specchio allucinatorio dove la realtà stessa supera l’immaginazione”.
Ed effettivamente è un libro che si divora e che ti divora: da anni non leggevo un romanzo di così tale potenza e originalità narrativa. Niente sperimentalismi alla David Foster Wallace (lo scrittore più incensato al mondo negli ultimi anni), niente apocalissi riciclate, come il Cormac McCarthy de La Strada (leggete Dissapatio H.G. di Guido Morselli (Adelphi): aveva già scritto tutto cinquant’anni prima). Il Signore degli Orfani è quello che si potrebbe definire un romanzone, uno di quei libri che ti metti di fianco al comodino e che non vorresti mai finire perché non è soltanto narrativa d’intrattenimento, ma alta letteratura che in ogni pagina riesce a coniugare la leggibilità al respiro del classico. Un’impresa non facile, ma che Johnson è riuscito ad ottenere grazie ad un talento incontestabile e ad anni di ricerca. Prima di passare alla stesura del romanzo, infatti, ha effettuato sette anni di ricerche ed è tra i pochissimi cittadini americani ad essere riuscito ad entrare in Corea del Nord, attraverso un escamotage che ha del romanzesco ma del tutto vero: è riuscito a farsi passare come aiutante di un raccoglitore di mele. Una trovata assurda, ma che dimostra l’altrettanta assurdità di paesi dove sembra impossibile sorpassare le strettissime maglie di una burocrazia che diventa dittatura. E Johnson racconta proprio tutte le contraddizioni, politiche e burocratiche, della Corea del Nord con il piglio dell’autore che, come ha scritto Zadie Smith, “sa perfettamente come si racconta una storia”.
Il protagonista del romanzo è Pak Jun Do, figlio del direttore di un orfanotrofio (dove anche lui viene allevato) e di una madre rapita per diventare cantante di regime e divertimento per i potenti della capitale. Il ragazzino cresce nel più rigido degli indottrinamenti dei regimi comunisti  per diventare “un  umile cittadino della più grande nazione del mondo”.
Pak Jun Do (notare che in America si usa il nome di John Doe per indicare i “figli di nessuno”) cresce nelle milizie dell’esercito, un perfetto “signor nessuno”, un “uomo qualunque” plasmato per obbedire a qualsiasi ordine nel  “regno eremita” dello stalinismo governato ai tempi del dittatore Kim Jong.
Jun Do diventa un perfetto strumento militare, preso di mira dalle vessazioni dei superiori (capitani nominati non coraggiosi, ma “Eroi della Rivoluzione eterna”) e costretto alle prove di più atroce disumanità e disumanizzazione. Nonostante questo “progrom” di spersonalizzazione dell’individuo, in tutte le pagine, anche le più violente dal punto di visto della psicologia propagandistica di massa, ci confortiamo proprio grazie a Jun Do: in lui sin da subito, anche tra le pieghe – della sua personalità e del libro- , i lettori percepiscono immediatamente un barlume di salvezza. Attraverso un umorismo (che i suoi “compagni” definiscono “idiota”) lo sguardo del ragazzo riesce a non deformarsi: ubbidisce alle regole più ferree, ma il suo annientamento come essere umano è soltanto apparente.
Ce ne rendiamo conto  con lo scorrere delle pagine: ci troviamo quasi a fare il tifo per lui, una sorta di Forrest Gump che ha l’innocenza del Candido di Voltaire. In mezzo a continui proclami politici,  diffusi nelle case dalle radio e nelle strade dagli altoparlanti sotto la direzione del “Laboratorio Linguistico del Gran Palazzo degli Studi del Popolo” e a regole impossibili da violare (“la sera l’energia elettrica viene spenta per mettere a dormire le città”), Jun Do riesce a mantenere una propria opinione. Anche di fronte alla campagna coreana contro gli Stati Uniti, simbolo della dissolutezza del mondo occidentale. Vengono, ad esempio, distribuite immagini dell’America fotografate dai satelliti ( “un’enorme striscia di luce che brilla a causa delle serate oziose e indolenti). Perché  “pigri e demotivati, gli americani stanno alzati sempre fino a tardi, alle prese con la televisione, l’omosessualità e perfino la religione, con qualunque cosa possa soddisfare i loro egoistici appetiti”.
Ci sono pagine e pagine che fanno accapponare la pelle: pur rendendoci conto che siamo in un romanzo, comprendiamo che lo scrittore descrive perfettamente il delirio dei regimi totalitari. E i brividi sono ancora maggiori se pensiamo che il concetto di dittatura, nella letteratura contemporanea, è sempre ambientata al presente o proiettata nel futuro. Il Signore degli Orfani è il primo grande romanzo a raccontare come l’orrore degli stati concentrazionari non sia un fantasma, ma una realtà del presente.
Attraverso la descrizione minuziosa di questo regime lo scrittore si sofferma moltissimo su un “regno eremita” dove “realtà e mistificazione si sovrappongono sino a essere indistinguibili”. Come se Johnson volesse avvertirci tra le righe come il pericolo esista anche alle nostre latitudini di democrazia. Anche in Occidente, pur se con altri mezzi,  al vero si sta sostituendo il verosimile. Certo le condizioni non sono le stesse, ma spesso possono essere anche più insidiose perché più invisibili. Non abbiamo più muri da abbattere, ma “tele-visioni” da spegnere.

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