Secondo la Genesi fu la luce una realtà oggettiva, avente un’esistenza a sé, anche per lo stesso Dio, infatti precedette la creazione del sole e degli animali e dell’uomo, quindi lo era anche per Elia Di Simeone, rabbino e tagliatore di pietre preziose in Mantova.
Tarchiato, camuso, egli portava sempre una strana blusa di cuoio e, sotto a essa, un giustacuore di scaglie di metallo; una specie di corazza, perché degli uomini aveva paura.
Nel giugno del 1502, Elia dal niente cominciò a erigere una pira di rami di gelso, poco fuori le mura della città, dalla parte meridionale, e, via via che cresceva, l’andava a cospargere di un’essenza resinosa, un intruglio ricavato da porri, ortiche, vitalba e timo, impastati con la pece e con la saliva di cento bambini. Lavorò per giorni e giorni, e si disse senza bere, né mangiare, né dormire, che le guardie del duca Gonzaga, dandosi di gomito e sghignazzando fra loro, lo lasciarono in pace, sebbene lo vedessero in preda a un’inspiegabile frenesia.
Il giudìo, per essere precisi, era anche primo gioielliere di corte, e questo, di certo, lo avvantaggiava.
A chi gli chiedeva il perché stesse facendo quel che stava a fare Elia rispondeva: “Al mio Signore Creatore voglio dimostrare che anche noi mortali siamo in grado di dare vita al nulla. Io, con Lui, sono in sfida, e in verità le liti non durerebbero a lungo se il torto fosse solo da una parte”; perciò andava avanti, ramo su ramo, tronco su tronco che, ogni sera, un folto gruppo di popolani si sporgeva dai bastioni senza fiatare, e stava là per ore a rimirarselo nell’affanno, aspettando l’epilogo di quell’inspiegabile travaglio.
La voce dilagò; l’intera città ben presto seppe di quell’operare vano, al punto che gli anziani della comunità ebraica andarono da Elia per dissuaderlo e riportarlo a casa; ma a quelli egli disse: “Nessun altro è più spesso in errore di chi non può tollerare di esserlo. Rientrerò in Mantova solo quando avrò dimostrato di poter dimostrare”.
Anche il Vescovo Tommaso della Scrofa si mosse, ma tale buttata, dal Di Simeone, gli venne di risposta: “Perdonatemi, eccellenza, ma uno sciocco infedele pari mio non ha stoffa sufficiente per essere addomesticato”, e la pira cresceva e cresceva, che Elia era giunto a 40 braccia di altezza e a 60 braccia di circonferenza, e ormai la catasta superava i merli e si pareggiava con le torri. E finoltre Cerese e Montanara l’ebreo si recava per raccogliere legna; egli aveva preso in affitto un carretto e un somaro e tutti i suoi risparmi li dava a chi aveva dei gelsi da abbattere e poi da vendere, che per qualche anno, seta, nel mantovano, non se ne fece, mentre sua moglie Rachele, sfinita, mischiava pece, saliva e erbe, per infine dare di matto e collassare, così che, sebbene giudìa, per benevolenza e compassione dei cappuccini, venne ricoverata allo Spitale degli Infermi e ivi salassata e più volte benedetta prima di morirvi.
Giunse alla buonora la notte del 31 di agosto, data che il Di Simeone aveva deciso per appiccare fuoco al tutto, in modo da far giungere le scintille finoltre il cielo. Ben mille persone si erano riunite attorno all’ammasso, che i rami, nel loro intreccio, davano l’impressione, a momenti, di figure arcane e, a momenti, di simboli e di volti; che pareva che l’intero sapere del mondo, con le sue fattezze, dovesse venire immolato per l’albagia di un uomo solo.
Elia, allorquando il portavoce del Bargello scandì per Mantova che si stava nell’ora seconda dopo il Vespero e la tenebra avvolgeva, ma nessun pericolo per la cittadinanza era incombente, accese una torcia e, lentamente, si avvicinò al mostro che aveva innalzato, così che i presenti trattennero il respiro fino a scoppiare, e pure i grilli smisero di cantare.
L’ebreo era giunto a non più di quattro braccia dalla sua creatura allorquando due, cinque, dieci, venti, cinquanta sibili tagliarono l’aria. I balestrieri del Gonzaga, per ordine del capitano Trivolso da Gàmbara, avevano scoccato i loro dardi i quali, nonostante la ferraglia che portava indosso, si conficcarono nel petto, nella schiena, nei lombi, nelle natiche, nelle gambe e anche nella testa del Di Simeone che, istrice impietrito, neppure barcollò, per cadere al suolo di schianto e irrigidito.
Subito, un milite, spense con il piede la torcia, mentre, altri, con le alabarde, sciolsero in malo modo la folla dei convenuti.
Il giorno seguente, per editto del Duca, ai giudei della città venne ordinato di demolire la catasta e di buttare i legni nel fiume Mincio, perché alcuna traccia non doveva restare di quella proterva sconsideratezza.
Anche il cadavere di Elia, dopo essere stato fatto a pezzi, fu gettato ai pesci, che egli nel vero aveva ragione nel pensare che fanno più terrore e male gli strali umani di quelli divini.
Gian Ruggero Manzoni
Photo credit: Paola Castagna