Tullia è magra, alta, mora, bella, infine perennemente scontenta, ma decisa assieme. Ha un volto particolare, segnato, spigoloso e senza tempo. Abita a Milano dove, ricca di famiglia, vive di rendita, pratica yoga, spesso vola negli Stati Uniti e, come Napoleone, ha la fobia per le vespe.
Un giorno, di un qualche anno fa, mi confidò: “Lo zio Tullio, considerato il folle della nostra genìa, era comunista e, durante la guerra, stava coi partigiani. Liberata Milano dai tedeschi e dai fascisti, con alcuni compagni si trovò all’interno del cortile di Palazzo Brera e, in piena baldoria, giovane, sfrontato, ubriaco e entusiasta, cominciò a sparare col mitra contro dei quadri lì imballati, già preparati dai nazisti per essere spediti in Germania… erano tele del Tiziano, di Lelio Orsi, del Savoldo e del Moroni. Poco dopo giunse il Commissario Politico della sua Brigata, da questi mio zio venne disarmato e messo agli arresti, quindi, processato per direttissima da un Tribunale del Popolo con l’accusa di aver deturpato dei beni appartenenti alla nazione italiana, fu condannato a morte e fucilato il 30 aprile del ’45 al poligono di Linate, in mezzo a spie, repubblichini, torturatori e a
collaborazionisti. Io porto il suo nome al femminile, come Tullio non mangio l’anguria e il melone, sono allergica alle castagne e, quando piove, mi spuntano in faccia delle bolle rosse. Penso che lui si sia reincarnato in me, e anche mio padre lo crede. Come Tullio cammino e gesticolo e, quando entro in un museo, dopo poco devo scappare, perché mi prende l’insana voglia di spaccare tutto. Sono di pelle chiara come lui e il sole non mi abbronza, resto sempre di questo colore – e, dicendo così, mi mostrò l’interno di un braccio – … che sembra che il mio corpo respinga i raggi della luce, senza assorbirne alcuno, come succede ai morti. Ciò m’inquieta oltremodo. Tu, che sei un artista, cosa ne pensi?”.
Freddato da tale domanda, per non fare la figura del fesso e tanto per colpirla in positivo, mi rifugiai in una dotta citazione, una delle solite, da intellettuale coglione: “Huygens – le dissi – grande scienziato del ’600, sosteneva che il corpo di una persona sofferente di ‘senso dell’errore’ non può beneficiare dei poteri che la luminosità in sé contiene, perché l’errore riflette solo, non incamera”.
Alle mie parole Tullia s’incupì ulteriormente, poi, passato un qualche attimo di imbarazzante silenzio, che io già mi stavo mordendo la lingua, sussurrò: “Le vere mortificazioni sono quelle sconosciute; ci sono più difetti nell’indole che cellule nel corpo; inutile inseguire l’armonia quando il passato grava sulla tua vita. Di gran lunga la distruzione di un’opera d’arte supera come colpa la distruzione dell’umanità intera, e questo vale in eterno. La mia psiche, tramite lo sbaglio di mio zio, contiene già in sé l’errore, e tale errore io lo trasmetterò ai miei figli, e, loro, ai figli dei loro figli. Annullare una creazione dell’uomo significa annullare se stessi e ogni altro essere vivente”, detto ciò, lentamente, si alzò dal divano dove eravamo seduti e andò verso la vetrata che dava sul giardino. Fuori, un giugno eccezionale brillava azzurro e splendente. Solo allora mi resi conto che attorno a Tullia un profilo d’ombra… un’aura tenebrosa… correva lungo tutta la sua persona. La ragazza non beneficiava della luce e, oggi convinto, perché coinvolto io medesimo, posso dire che non potrà mai più beneficiarne. Non le era e non le è concesso. Nel profondo addolorato, quella mia fu una decisione immediata, irrazionale, frutto di una passione devastante e insana della quale, però, mai mi sono pentito, e mai mi pentirò. Di scatto presi il tagliacarte che stava sulla scrivania dell’allora mia amica… oggi moglie… e mi fiondai verso “Paesaggio a Grizzana”, il piccolo olio di Giorgio Morandi che ella aveva di proprietà, un vero gioiello pittorico che spaziava solo, fulgido, nella parete davanti a me, e lo sfregiai e lo sfregiai e lo sfregiai ancora e ancora, riducendo la tela a esili fettucce. Al termine dell’atto forsennato la testa cominciò a girarmi come fosse una trottola, poi seguita dal corpo intero. Mi trovavo in una centrifuga, inghiottito da un buco nero. Più giravo e più sentivo che la luce stava uscendo dai miei pori, e che il peso abissale dell’oscurità andava a occupare tutto il mio essere. Crollai al suolo e rantolai: “Ora siamo uniti, Tullia, che l’errore ci leghi per sempre”, quindi svenni, come svenne Abramo quando Dio gli ordinò di sacrificare Isacco.