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Gian Ruggero Manzoni inedito. Il mio Pinocchio

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Dopo aver festeggiato i 20 anni di attività di Satisfiction insieme a scrittori come Enrico Remmert, Stephen King, Vitaliano Trevisan, Raul Montanari ed Enrique Vila Matas, in occasione dei 22 annni della rivista pubblichiamo i racconti di autori che da anni contribuiscono a creare Satisfiction.

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Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

Come si chiama tuo padre?

Geppetto.

E che mestiere fa?

Il povero.

E quanto guadagna?

Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca.

Tu che avesti nel nome il seme del pino, fu quel seme amore di padre e amore di figlio, e fu carne nella scorza, fu germinazione nella durezza di un legame.

Tante le mutazioni di un figlio, ma, altrettante, le trasformazioni di un padre in cerca della creatura perduta.

Il povero Geppetto si vendette la casacca per l’Abbecedario, e vagò per ritrovarti, fino al ventre del pescecane, ma il figlio era un picaro, un irrequieto, un errabondo e un ingenuo, e lunga risultò la sua fuga per prendere coscienza di sé, ma, soprattutto, per comprendere un sentimento che si rivelò, via via, sempre più sacro e fedele.

In quell’albero, da cui scendono e salgono gli angeli, ma anche i dubbi e le consapevolezze di noi umani, tre sono le vene che ne solcano il tronco: quella dell’affetto, quella della forza e quella della compassione. E quell’albero ha voce… ha parola… perché tutto, in questo universo, ha un suono. Da lui il dirci dove le tane dell’orso e del lupo, il nido dell’upupa, quando il passaggio di una cometa, dove di notte dorme il sole e dove di giorno si corica la luna, poi quanti figli ha il boscaiolo, in che luogo la madre carezza e lecca i suoi cuccioli, dove il cervo beve, la lontra nuota, il fagiano depone le uova o il cinghiale su quale roccia si gratta la cute.

Sì, Pinocchio, dell’albero della vita fosti un ramo caduto, giunto a noi, perché la nostra storia fosse scritta. Perché sapessimo della tenacia che ci abita e della misericordia che, con la carità, risulta prima virtù di chi ha l’animo nobile.

Tutto muta, tutto è in continua trasformazione e in perenne movimento, e l’avanzare è un rito che racchiude in sé infiniti significati.

Stato dopo stato, gli antichi libri ci dicono che la purificazione avviene per mezzo dei quattro elementi che reggono la sostanza fisica di cui siamo fatti: Terra, Aria, Acqua e Fuoco, per poi giungere al passaggio dalle tenebre alla luce, così da abbandonare ogni zavorra profana, ogni debolezza, ogni vana tentazione, per quindi dedicarsi al bello e alla conoscenza più lontana.

Nella Terra la discesa, il toccare il fondo, la visione degli inferi e del nulla, e quelle meditazioni.

Nell’Aria il volo di un colombo, il soffio dell’esistenza, le correnti avverse, i nubifragi e le tempeste.

Nell’Acqua la musica delle membra, della nascita e della maturazione, del non darsi per vinto… e il tuffarsi senza scrupoli.

Nel Fuoco l’ardore, il fulgido fervore, che trasmetteremo ai nostri simili, con la parola e il fare con passione.

Poi la benda scivolerà dagli occhi, e ciò che importa, cioè il sangue, la famiglia, il dirsi per quel che si è, l’aiutarsi, trionferanno con amore.

Che dire ancora? Che l’essere degno del padre, in te, Pinocchio, si mischiò col caos, con la dispersione, coi falsi amici, col desiderio del facile successo, e così il trambusto, il turbamento, il carattere guascone, e una vita dissoluta, ma il tutto assieme all’innocenza, che ti ha poi reso giudizioso, onesto e avveduto.

Povero Pinocchio, nostra povera marionetta, quale tracotanza, quale alterigia, quanta vanagloria, per come magro e fragile tu eri e per come fosti sempre in preda allo scompiglio. E invece che umiltà, che dedizione, che modestia, che mestizia in quel brav’uomo di tuo padre, che tanto ti volle e tanto fece per te, arrangiandosi per come poté, perché sempre senza una medaglia o un soldino.

E come non volerti bene, Pinocchio, messo com’eri in quel vestituccio di carta fiorita, con quelle tue scarpe a punta, fatte di corteccia d’albero, con quel cappellino di mollica di pane e coi pantaloni che ti giungevano al polpaccio, lasciando gli snodi delle caviglie al freddo soffio del vento di mare?

Pinocchio, forse che tu sia stato anche un ribelle il quale, col suo fare, tentava di scappare dalle imposizioni dell’omologazione e del conformismo? Che rincorreva la libertà a tutti i costi, diverso dagli altri, come diverso poi lo fosti? E diverso anche tuo padre sapeva che lo eri, falegname che, a sua volta, diverso tra i diversi, trovò senso nel dare, tramite la sua arte, vita al materiale che conosceva.

Poi i tanti altri diversi, gli altri alieni, i tuoi compari, tutti in te, e tu, in loro: il Gatto e la Volpe, le tue sorelle marionette, Mangiafoco dalla lunga barba, uomo burbero ma di cuore, Melampo, Lucignolo, che fu figlio della tentazione e del demonio, il mastino Alidoro, il Pescatore Verde, il Tonno saggio e i tanti incontrati nel Paese dei Balocchi, dove asino arrivasti e asino ti riconoscesti, non in uno specchio, ma nel riflesso di un catino.

Pinocchio… tu estraneo fra gli estranei… in quante realtà ti abbiamo collocato, per non renderti eguale a noi, cioè bravo, buono, educato, o, nell’ipocrisia, frutto di tutto ciò che definiamo come “normale”?

E quante volte sei morto o poi rinato, sia nella favola sia in noi, e hai promesso, e hai giurato, e il naso ti è cresciuto, e la Fata o tuo padre hai invocato, chiamando il tuo essere, cercando un’identità, una soluzione, un poter risultare te stesso, seppure non creando dolore agli altri, da figliol prodigo, da Cristo forgiato con assi e chiodi, coi quali ti abbiamo più e più volte descritto e poi sacrificato?

Ebbene sì, Pinocchio, dalla tua creazione fino al bambino in carne e ossa, la tua storia contiene tutti i sentimenti e i travagli della nostra mente umana: l’innato affetto tra genitore e figlio, l’impertinenza del bimbo verso il padre, l’animo indulgente del genitore verso la sua creatura, il cuore del fanciullo che, seppure innocente, non sa resistere alle seduzioni, cacciandosi in un sacco di pasticci e coinvolgendo, in ciò, soprattutto chi gli porta amore.

Pinocchio ascolta, insegui sempre quel che ami, o finirai per amare giusto quel che trovi, adeguandoti, adattandoti, sottostando al compromesso, che mai è arte, che mai è vita, ma un conformarsi, un soggiacere e, soprattutto, un deridersi, quindi un fare, di sé, sberleffo o maschera priva di natura.

Ma poi è vero che non esiste mostro o miracolo più grande di noi stessi?

I sommi maestri dicono di sì, infatti, quando si è piccoli, la notte fa paura, perché ci sono i mostri nascosti sotto il letto. Da grandi, i mostri sono diversi: insicurezza, solitudine, rimpianti. E anche se si è più saggi e più cresciuti, ci si ritrova ad avere ancora paura del buio… del buio che è celato in noi e, spesso, nelle nostre inutili soluzioni o vedute.

Pinocchio, non regalare ai mostri che ti abitano la chiave della vita. Se pure li hai accolti in te, puoi sempre cacciarli via e, soprattutto, per nascondere quella verità, non aggiungere al tuo naso un altro naso di cartone. Perché, come fu detto, chi combatte coi mostri deve stare attento a non divenire uno di essi, come chi combatte contro la morte di un sentimento deve guardarsi le spalle, così che l’aridità non lo prenda… e lo renda del tutto, e per tutto, un nulla.

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