A volte mi domando: “Cos’è che mi vive e che mi fa vivere?”. Non ho altra risposta che: la passione, quella che alimenta l’esistenza dei lottatori e degli amanti, o di chi ha in sé entrambe quelle doti. La passione che comanda ai suoi fedeli di innalzare il trascendente, l’immaginifico, il sublime, il mirabolante, ma anche il paradossale, l’iperbolico, l’ossimorico, l’apparentemente contraddittorio.
Quella passione che le tante menti superficiali vorrebbero ingabbiare in enunciazioni e motti da Baci Perugina, oppure in significati prosaici ritrovabili in riviste gossippare, quando, invece, stiamo parlando di energia che muove universi e spiriti trionfanti, nonché esaltazione prometeica, speranza per animi romantici, sfida a ogni confine, sfida alla morte, ma anche fratellanza con la stessa.
Così in me s’incarna quel vento, quel sole, quella pioggia, quella tenebra, quel motore immoto, poi il sangue di tutti coloro che ci hanno preceduto, e anche il vostro sangue, visto che mi cibo antropofagicamente di voi tutti, e non potrebbe essere diversamente per chi è venuto a contatto, per anni e anni, con l’oscuro.
Sì, ho visto e frequentato il daimon che mi vive e che vive in tutti noi. L’ho visto e ci ho bevuto assieme sia in teatri di guerra sia nel quotidiano, in ciò che ci circonda in questa finta pace, finta democrazia, finta amabilità, finta amicizia, finta cultura, finta bontà gesuitica.
Quel daimon che, di solito per soldi o narcisismo, ci precipita nell’abisso e fa di noi dei traditori dei nostri ideali, della nostra identità, della nostra dignità, di “ciò” che di nobile infine conteniamo, anche se quel “ciò”, detto fra noi, è pochissimo, non certo tanto. Ho visto la caduta della Bestia nell’abisso e quel sacrificio, indotto da un mondo che riesco ad amare unicamente tramite le sue più umili, ma pur titaniche, sfumature.
Diverso, invece, se detto sacrificio, cioè il gettarsi nella tenebra, risulti volontario. In tal caso esso non significa più crollo, sovvertimento di tutti i valori, distruzione di tutto quello che un tempo fu sacro, ma trasformazione e conservazione, ritempramento, riconsolidamento del proprio Essere, e questo per merito della sofferenza che deriva da quel tuffo voluto. Questo ho visto e confido che, prima o poi, tutti lo vedano, al fine di eliminare l’ipocrisia dilagante.
Non a caso, fin da giovane, ho avuto quale primo riferimento Johann Wolfgang von Goethe. Infatti anche Goethe scrutò entro l’abisso, vi entrò, fece patti col demonio, ma, infine, riuscì a riemergere dallo stesso, non più travolto da quella voragine. In quel modo egli disse un appassionato sì alla vita, al divino, al bello. Egli sconfisse la forza oscura, la schiacciò, trionfò su di essa, se ne liberò, uccidendo uno dei suoi personaggi letterari più celebri e più grandi, il giovane ed addolorato Werther.
Goethe, privando della vita Werther, annientò la forza negativa e si votò a quella positiva, che lo accolse come un figliol prodigo. E lo stesso fu per Ezra Pound, un altro di miei maestri, per il quale il suo fare poesia è stato un cammino, un tracciato, una battaglia storica e lessicale che si è articolata in vari momenti e in infiniti richiami. Ad esempio è impossibile dire dove inizino e dove finiscano i Cantos.
Sono un unicum in un continuum. Sono la scrittura nel suo farsi, nel suo perenne divenire, nella sua più totale espansione. Pound è un acculturato primitivo in cui il sapere, l’eredità classica e accademica si mischiano con due legni battuti ritmicamente su di un tronco o con la nenia di uno sciamano siberiano. Impossibile connotare il come egli abbia usato la parola, la frase, il verso, l’immagine o che altro volete.
Lui sfugge, e muta, e muta, e muta, così che il suo fare letteratura diviene grande sinonimo di ciò che è la vita la quale, dal geniale, torna al barbarico, per quindi rinfrancarsi in esso e di nuovo tornare a livelli musicalmente stratosferici. E proprio a Goethe e a Pound vorrei dedicare questa mia poesia inedita che risale a oltre una ventina di anni fa:
Per onde viaggia il pilota,
deposto il camice del matto e
del santo.
Drieu La Rochelle e Céline
ne furono innamorati…
per ardenti metafore di tubi,
scappamenti, benzina arsa,
olio e polvere, che ne truccavano
il volto da antico guerriero.
Carl Von Clausewitz ne trapiantò
il cuore nel petto del suo cavallo
e i Celti, di coloro che andavano
con la velocità del vento,
parlarono come di dèi, Figli
del Mare Meridionale…
del Mediterraneo.
Il superamento della decadenza
e della paura della morte,
con quei significati tragico-grotteschi,
è il compito che il poeta
fin da Eraclito si è dato.
Gian Ruggero Manzoni