L’amore, nel senso evangelico.
L’amore, elevato a eccellenza di diritto divino, a giustificazione morale della felicità, agente di assoluzione per qualsiasi atto compiuto e disperso, liberato nell’universo. L’ho fatto per amore. Tutto è solubile nell’amore, dall’amore, con l’amore, tutto è d’incanto degno di pietà, di compatimento, persino dell’immedesimazione altrui, sotto la coltre zuccherosa dell’amore.
Detestavo quella risposta universale e inintelligibile, quella speranza, quell’illusione di armonia eterna o comunque duratura, quella promessa di convivialità osmotica con altri individui entro cui qualsiasi azione o sentimento appena più in basso nell’ideale gerarchia del potenziale umano finivano per essere dissolti, nel nome di una condizione idillica da ciascuno creduta unica e abissale, specie nl rapporto di coppia.
Miliardi di amori, tutti unici e abissali. Possibile?
Perché dovrebbe esistere questo miracolo? Amore come energia endogena irresistibile, al cui passaggio si può solo lasciarsi travolgere senza opporre resistenza; oppure sì, resistendo, ma senza speranza di prevalere. Perché l’intera rivoluzione dell’innamoramento non dovrebbe trattarsi solo, infine, di una mera volontà difensiva, di un bisogno provvidenziale, di una supplica al destino di elargire un po’ di carità? Come potevo credere che in tutta l’immensità dell’universo fosse concepibile che l’anima gemella destinata a me fosse proprio lì, nata e cresciuta accanto a me, a poche centinaia di metri? E se invece quello tra me e Clarissa, e il nostro “amore unico” fosse stato solo un incontro casuale, certo piacevole e foriero di piacevole intesa corporea, di empatia, simpatia, ma in ogni caso un evento invadente ed esclusivo, che aveva negato milioni di incontro potenzialmente più piacevoli empatici, e sessualmente esplosivi? E se l’incontro clou, quello della fusione perfetta, fosse da annoverare tra quelli perduti?
Credere a noi come osmosi pura e insuperabile, era, più verosimilmente, pura fantasmagoria.
Anche perché tutta la bellezza ideale, la propensione all’altro, l’apertura incondizionata verso un’umanità altra, s’affievolivano presto alla tara delle mie percezioni più recondite. Sentivo di ambire a qualcosa di molto più travolgente e al tempo stesso molto meno spirituale di un’armonia. Volevo meno fratellanza, non mi interessava assicurarmi la comprensione di nessuno, né tantomeno poter contare su un riferimento certo, o peggio, su uno specchio della mia anima. La verità è che ero stanco del compromesso. Tendevo in modo inoppugnabile verso la realizzazione solipsistica, ed ero guidato da una forza narcisista: mi annoiava l’idea di cedere a slanci dettati dalla gratuità del dono al prossimo mio – che camomilla collettiva, che trovata da oratorio – io sentivo vera propensione per l’amore soltanto se inteso come mezzo per cimentarmi in una sfida crudele e seduttiva: fingere di amare per essere amato a mia volta, ma per davvero.
L’ennesima simulazione. L’ennesima strategia delle apparenze. Quella in gioco era una quindi una domanda d’amore senza offerta, una domanda a cui desideravo una riposta positiva a ogni costo. E poi mi sovrastava la pulsione sessuale pura. L’immagine di Clarissa a corpo nudo, debole e promanante luce era un miracolo da proteggere a ogni costo. Vivere e morire solo per lei, per una sua benedizione, per un attimo di contemplazione senza essere visto, notato, delle sue orbite astrali ingioiellate di chiarore, della sua vanità vorticosa, delle sue leve incatenanti. E tutto dentro una luce al neon, tutto per avere il diritto di possedere la signoria di lei, del suo corpo, del suo immaginario. Volevo tutto di lei al patto che niente di lei fosse ispirato dall’amore.
Per fortuna non era più quel tempo.
Uscendo da casa di Clarissa, dopo cena, sapevo che vi sarei ritornato l’indomani per chiederla in sposa – il gioco a rilancio definitivo – e che lei avrebbe accettato con entusiasmo la romantica proposta.
Ma prima di staccare il biglietto per quell’isola placida e ovattata salvata dalla finzione, di cui con avanzando con gli anni non avrei più potuto fare a meno – un luogo prodigo di attenzioni e cure, di comprensione reciproca e affetto, forse un po’ noioso ma solleticabile con un po’ di gelosia ad hoc, di tanto in tanto – volevo una notte nella verità cruda del mondo, quella basata sul desiderio, sul contratto come garanzia che ogni parte contraente riceverà il suo tornaconto.
Volevo un rapporto uomo/donna che abolisse il potenziale naturale di scambio libero, il gioco altruistico tra anime e corpi e la velleità altruistica di far felice il partner. Volevo una simbiosi diversa, che non trovasse la sua sublimazione nella reciprocità profonda della complicità, o della fiducia corroborante e sacrale, ma invero nella sublimazione identitaria attraverso la forza del desiderio nudo e della limpida volontà di potenza.
Fu così che salì in macchina e andai da Sylvie, sapendo che avrei adottato parzialmente, per il tempo della seduta, un vero e proprio nuovo paradigma di vita, in cui non sarei stato costretto a un qualsiasi tipo di performance, all’efficienza produttiva, all’ottimizzazione o peggio ancora al profitto. Con Sylvie avevo la possibilità di inabissarmi in una vertigine, di purificarmi dal mio stesso super-Io berciante e eternamente desiderante, ma non assecondandolo, non affermandolo come vittorioso attraverso qualche manovra spregiudicata usata come una spranga nel contesto sociale, ma confinandolo in una posizione ambigua: dovevo solo uscire da me stesso e lasciarmi guidare in un percorso di degradazione.
Cedendo alla sessualità sadomasochista, che in parte significava lasciarmi soggiogare da un’energia estetica travolgente – ovvero il potere strabordante e magico del corpo femminile reso statuario, liscio e prorompente da materie morte e industriali come il latex, il cuoio, il nylon, la pelle lavorata – avrei ottenuto come risultato finale l’unica possibile e vera liberazione del sé, la sua demolizione ironica. E tutto mettendo in scena, attraverso l’eros, la forma giocosa e spettacolare di una verità profonda: l’esistenza di un patto segreto, di un’attrazione fatale tra dominatori e dominati. Tra soggiogati e soggiogatori.
Io, per sancire il mio patto, avevo scelto il modo più vicino allo zeitgeist dominante, il modo che battezzavo “Il paradosso del neoliberista-libertino”: firmare un contratto di sottomissione con Sylvie la mistress, la regina dominante di 24 anni, che con la sua estetica sadomasochista fatta di gabbie, fruste, gangli, estremità pungenti, rigidità, giochi di ruolo, era simbolo scintillante della verità del mondo, apparenza e perfetta sintesi sensuale del capitalismo avanzato, e pagarla in contanti, senza tracciabilità, e con un lauto premio in Bitcoin. Così avevamo concordato.
Mentre andavo da lei pensavo al ruolo segnico e feticistico degli oggetti, le fruste, i dildi, i corpetti, le scarpe, le maschere, le cinture di castità, i guanti in lattice. Il corredo artificiale con cui avrebbe ingioiellato il suo corpo manichino mi eccitava molto più dei suoi seni, che pure erano perfetti, o dei suoi glutei torniti e sodi alla cui rotondità inebriante mi sarei certo consegnato, ma soltanto dopo. Per il social time finale, giocoso, tenero e infantile, quando Sylvie mi avrebbe di certo raccontato di sua figlia e di quanti problemi aveva avuto il dentista a levarle il dente del giudizio. Ma non prima del viaggio, della vera caduta nell’abisso, che sarebbe stata esaltante quanto impegnativa.
Sylvie mi conosceva bene e da professionista mi aveva compreso. Interpretava benissimo l’abolizione dello scambio legato ai giochi di seduzione e alla scoperta intima e pudica dell’altro, per favorire la chiarezza gelida del contratto schiavo/a – mistress/master, con il capitolato di prestazioni acquistabili e di desideri da soddisfare. Adoravo la traduzione dell’esuberanza erotica in un’energia del desiderio pura e semplice che cerca solo la sua soddisfazione momentanea: l’eruzione, il riposo, la nuova eruzione, il riposo, l’eruzione ulteriore. La coazione a ripetersi, e non l’osmosi libera e sorprendente.
Ma io mi liberavo dall’odioso comando di essere senziente, padrone e responsabile della mia vita. Rinunciando all’onere di decidere, di dover prendere una posizione in un mondo dove regna l’indecidibile, di dover costruire un super-io competitivo è dominante nel mondo diurno, rinunciavo a un obbligo insopportabile, vivere con profitto. Nell’abbandono del proprio super-Io alla sconfitta e con la sua resa volontaria al destino genitale del femminile, e all’estetica stessa del femminile erotizzato – che pur nella sua messa in scena mascherata, e anzi proprio, in quella, svela la sua vera essenza di sesso dominante in natura per mezzo del potere divino di riprodurre la vita – sì, proprio in quella fuga disperata, avrei trovato gli attimi di felicità più profonda che fossi in grado di concepire. E più quell’uscita dal super-Io prometteva di realizzarsi al meglio nel concreto, con la messa in scena più barocca e gli atti fatidici di totale umiliazione del sé – l’essere cavalcato, il lustrarle le scarpe, l’essere munto come una mucca da latte – più il senso di libertà interiore si faceva grande, completo, totalizzante, irrinunciabile, e costringeva a un gioco di rilanci sempre più vorticoso e abissale.
Arrivai da Sylvie, e lei era vestita come avevamo fissato in uno degli articoli del contratto, forse l’undici o il dodici, con top di pelle che le lasciava libere le spalle e due coppe rigide che consentivano una scopertura sottile sui primi proclivi dei seni, proprio nel punto dove la pelle candida assumeva tonalità più chiare. Il patto richiedeva in trucco leggere sugli occhi e un rossetto rosso, i capelli lavati tassativamente il giorno del nostro incontro, i jodhpurs da cavallerizza, un paio di stivali da equitazione senza lacci – volevo solo superfici lisce e perfettamente levigate – nonché due soli accessori: una frusta e un collare con guinzaglio che avrei indossato, da inginocchiato, appena varcata la soglia d’ingresso.
Sylvie, fissandomi con i suoi occhi turchesi, mi ordinò di mettermi a quattro zampe e seguirla nel dungeon illuminato di luce soffusa. A quel punto iniziò il mio viaggio nell’abisso, colpo dopo colpo, comando dopo comando, umiliazione dopo umiliazione. Non era magnifico, non era una sensazione assoluta di onnipotenza, mettere in scena la poderosa violenza del mondo reale e provare, finalmente, piacere nel subirla? Non era il modo di venirne a capo, e di deridere la condizione insopportabile di vittima? Non era un umorismo sottile e magico sfidare l’oppressione del quotidiano per eccesso di zelo, moltiplicandolo? Ogni colpo di frusta, ogni sputo, ogni sopruso, ogni centimetro di pelle che stavo lucidando, lungi dal punirmi, mi provocavano quel piacere sterminato che avevo smesso di provare nella vita sociale. Con Sylvie ritornavo uomo rinascendo non da un’unione uomo donna, ma soltanto da una donna. Quanto poteva valere per me, l’amore, se paragonato all’attimo sublime del rinascere?