Se c’è una cosa di cui mi convinco sempre più, leggendo autori contemporanei, è l’importanza della costruzione di una voce riconoscibile. Ancor prima della trama, ancor prima della struttura, saper trovare la propria nicchia autoriale attraverso la definizione di uno stile personale, in un panorama editoriale odierno bulimico e iperattivo, è quanto mai fondamentale.
Non è semplice, non è scontato e in genere questo processo può protrarsi di uscita in uscita, con il rischio nel tempo di annacquare il proprio estro, adattarsi o, ancor peggio, accontentarsi. A maggior ragione quando capita di trovare un autore (giovanissimo) che alla sua seconda prova editoriale è già ben consapevole della strada che vuole intraprendere, beh, allora c’è solo da gioirne.
Personalmente, Perale mi aveva già convinto alla sua prima prova, Le cose di Benni (Rizzoli 2021), una boccata d’aria fresca in un periodo di uscite stantie, castrate, con una pandemia a tarparne le ali promozionali ma un’identità e una mappatura del testo già estremamente lucida e convincente.
Lucidità e controllo che l’autore dimostra di non aver perso, semmai acuito, in questi due anni di scrittura, dando forma a un secondo romanzo la cui trama risulta ancor più minimale, se possibile, asciutta e lineare rispetto alla precedente, fattore che ha permesso allo scrittore di spostare ancor di più il focus sul suo cavallo di battaglia: una penna riconoscibile, ammaliante, che cattura il lettore e lo trascina nel flusso della vicenda già dalle battute iniziali.
Tom ha tredici anni, frequenta la terza media di una città il cui nome non ci viene rivelato ma la cui struttura, il clima e il nome di alcune strade fanno pensare a un qualsiasi centro urbano del nord Italia. Tom ha un amico, Paride, “Poni”, un compagno di banco e allenamento verso cui prova un sentimento di amicizia così profondo da sfociare nell’ossessione. Basta una scintilla qualsiasi: Leo Fosco, compagno di classe dei due, una mattina, durante la ricreazione, sbatte un righello in testa a Poni. Tom scatta al volto del ragazzo, lo colpisce sul naso, forte, fino a romperglielo. I tre finiscono dal preside ma l’unico a cui sembra toccare la punizione è Tom. Il rischio è di dover cambiare classe, forse addirittura scuola, lasciando Poni in balìa delle angherie di Leo Fosco, ma sarà davvero così?
Il punto di vista del lettore è quello di Tom. Vediamo ciò che accade dai suoi occhi, ne comprendiamo le dinamiche attraverso i suoi ragionamenti ma chi ci dice che questa lente sul mondo circostante non si frutto di un’intima distorsione? Tom continua a ripetere a sua madre, allo psicologo chiamato in causa, a Mimmo (il padre di Poni) che ciò che ha fatto è stato solo per il bene del suo migliore amico. Il suo gesto è stata una legittima azione di difesa, che altro avrebbe potuto/dovuto fare? Restare impassibile mentre il compagno subiva la violenza?
Amico mio è un salto nell’età più fragile o forse sarebbe meglio dire una caduta. Le domande di Tom potrebbero essere il frutto di una mente instabile ma restano quesiti legittimi in una quotidianità fatta di adulti smarriti quanto i figli di cui dovrebbero occuparsi e la bravura dell’autore sta anche nella capacità di rendere ogni singolo personaggio un essere dannatamente credibile, umano, estremamente riconoscibile nei propri dubbi e nelle proprie vulnerabilità.
Perale riesce ad esporci una seconda volta a quella parte di vita in cui tutto ci appariva più vivido, impellente, estremizzato da bisogni inspiegabili e totalizzanti.
Basta un soffio, una scintilla qualsiasi. Basta un righello sbattuto sulla testa di un ragazzo o il vacuo silenzio dell’amico più importante a far crollare il proprio castello di certezze e impedirci di riconoscere il confine tra un amore e una dipendenza.
Ripenso a una pellicola vista di recente, Close, di Lukas Dhont. Sempre di tredicenni, sempre di rapporti morbosi e confini infranti, sempre di legami spezzati da un’incomprensione si torna a indagare e anche qui, come nel romanzo di Perale, il pregio maggiore resta l’equilibrio. Il rischio è altissimo quando si trattano tematiche così delicate, il piatto della bilancia va tenuto saldo, il controllo dev’essere totale. Sfociare nella violenza o nel cliché è questione di una frase di troppo, di una risposta sbagliata, di una reazione poco credibile. In questo testo, come nella pellicola di Dhont, non accade nulla del genere ed è proprio in questo continuo tentativo di immedesimazione che si compie l’atto letterario.
Non è più Tom ad avere tredici anni, siamo tutti quanti. Noi che leggiamo e nel mentre torniamo con la testa a quei giorni, i nostri, attraverso un testo voragine le cui pareti sono dialoghi scivolosi, sempre più claustrofobici, verso un silenzio inquisitore che non garantisce assoluzione.
Non aspettatevi dunque metafore esistenziali o scenari aulici, Perale è uno che va dritto al sodo: massimo tre aggettivi per paragrafo e via di dialoghi serrati. La sua è una prosa che lavora per sottrazione, diabolicamente magnetica. Il bisogno di raccontarci cosa passa nella mente di Tom è la sola priorità, ogni orpello è bandito, ogni riempitivo, censurato. Si evince una continua ricerca dell’equilibrio perfetto quasi a voler riparare con le parole, le ferite della psiche. Tocca essere schietti, dunque, come lo sarebbe l’autore stesso: Amico mio è un libro che vorresti abbracciare. C’è umanità nell’errore compiuto, c’è il bisogno di credere in qualcos’altro, c’è la voglia di lasciarsi andare a un pianto liberatorio ma occorre fare in fretta, prima che le parole si esauriscano, prima che l’ultima pagina sia chiusa e la vita adulta, vorace, torni a cibarsi di ogni magia.
Stefano Bonazzi
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Amico mio
Gianmarco Perale
NNE
17,00 euro — 204 pagine