Sto redigendo la bibliografia completa delle traduzioni italiane di Søren Kierkegaard (scadenza 5 maggio prossimo, bicentenario della nascita): una storia affascinante che iniziò più di un secolo fa con In vino veritas (l’ho tradotto anch’io), edito per Carabba da Knut Ferlov, apolide migrato poi in Francia, a tradurre ancora SK, in francese…
E dove son finito l’altroieri in rete, mentre cercavo un’anteprima del novissimo Ulisse einaudiano? Qui, e dagli indici del n. 4 (1996) e del n. 6 (1997) non ti spuntano due testi di SK non meglio identificati, ma segnalati il primo come “tradotto anonimamente dalla redazione” e il secondo come “tradotto da Gianni Celati”.
Così ieri sono andato in Sormani, a compulsare la feltrinelliana rivista. E dunque: quello celatiano in realtà è siglato “traduzione redazionale”, titolato Appello al lettore e fornito di fonte, “Da Til selprøvelse, Copenaghen 1851”. Trattasi di 7 righe, quelle della Prefazione senza Appello a Per un autoesame, appunto. La redazione de “Il semplice” era composta da: Benati, Borsari, Cavazzoni, Celati, Schneider, Cornia, Jean Talon. 7 traduttori per 7 righe? No, perché intanto Talon era morto.
L’altro testo reca una nota finale, “Traduzione e titolo sono nostri”, più la fonte: “Da Johannes Climacus, Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift til de Philosophiske Smufer [ma Smuler], Copenaghen 1846” – dalla Postilla conclusiva non-scientifica alle Briciole filosofiche insomma, che è del 1846, benché le 4 righe di premessa alla testo, titolato dai nostri Conversazione con un bastone da passeggio, attacchi con un plateale: “Questo brano scritto nel 1848…”.
Ma chi erano i nostri? Ancora i 6 + 1†? Non è detto, perché, se la redazione fu stabile, a ogni numero dei 6 totali variavano i curatori, membri comunque della stessa. Così, il numero col SK di 7 righe fu curato da Celati e Schneider, mentre quello col SK da passeggio da Celati e Borsari. I “nostri” dunque sono questi 2, a meno di un plurale maiestatis.
Ma com’è la traduzione (2,5 paginette formato 18×12), che poi è quanto interessa realmente il lettore? Innanzitutto la scelta. SK va normalmente a capo quando ritiene compiuto il ragionamento svolto nel capoverso. Nel caso specifico, SK prima espone una tesi, poi la illustra con un aneddoto, e infine trae le conclusioni. Purtroppo, il brano scelto dai nostri inizia con l’aneddoto e finisce con le conclusioni; in più, questo mutilo capoverso viene smembrato in 5 capoversi; e a concludere il massacro, saltano completamente 3 proposizioni.
Siccome dev’esserci del metodo in questa follia, ho cercato d’individuarlo. Ad es. ho notato che spesso gli articoli determinativi risultano tradotti con indeterminativi e viceversa, mentre le proposizioni congiuntive con avversative e viceversa (il che non è poco, in un ragionamento).
Passando al lessico, c’è da mettersi le mani nei capelli (a prop., “capelli di stoppa” diventa “capelli fatti di filamenti di canapa”): “stare per” diventa “si prepara a” (non è lo stesso, pensate se vi scappa), la “capitale” una “città”, la “frittella” una “pizza” (alle aringhe?!), la “boccia” una “palla” (se ti viene addosso, come nell’aneddoto, c’è differenza), un uomo “a modo” diventa “altero”, la “malattia” “turbamento” e la “mente” idem (per cui un Sindssyg, hvis Sygdom netop er at han intet Sind har – “malato di mente la cui malattia è precisamente di non avere mente” – diventa “uno che soffre di questo turbamento mentale, il quale consiste nel non avere nessun turbamento”), la “domanda” di Pilato (quella rivolta a Gesù in Giovanni 18,38, la sanno anche i maroniti) il “problema” di Pilato (tutto suo?!)…
E dove inciampa l’asino è su Kjoleskjøde, cappotto d’infima qualità, i.e. pastrano (difatti lo indossa il matto in fuga dal manicomio). I nostri traducono “cappotto”, e passi; però un secondo Kjoleskjøde di qualche riga dopo, egualmente inaggettivato, è “toga dottorale”: ma dài! Eppure, se a indossarlo è un “professore universitario”… Così appunto traducono Privat-Dozent, che invece è “libero docente”, uno cioè che ha l’abilitazione a insegnare in università, ma senza remunerazione: da ciò il pastrano.
Tornando alla premessa di 4 righe, essa presenta il brano come “un attacco a certe abitudini professionali”, come una serie di osservazioni che “potrebbero applicarsi a infiniti esempi odierni”: tanta era dunque la voglia di applicarle, che uno sfigato in pastrano diventa un prof universitario in toga dottorale.
Finora abbiamo accertato la probabilità che a tradurre sia stato Celati; e la probabilità si fa altissima se ci chiediamo: chi dei nostri ce l’aveva con gli universitari? Celati, che in quel 1996 da poco si era ritirato dal Dams di Bologna, come spiega in un’intervista sulla pagina bolognese de “La replobbica” del 6 marzo scorso, adducendo il motivo: “Sono entrato in collisione con l’apparato dei professori che m’impedivano di andare a insegnare all’estero”. Peccato, sarebbe stato il primo esempio di fuga dei cervelli con stipendio in casa.
Concludo: salvo smentita pubblica, nella bibliografia assegnerò a Gianni Celati le 2 traduzioni. Le bibliografie, in quanto tali, non lasciano trapelare giudizi sulla bontà delle voci, e pure in questo caso una ciofeca assurda (ché gli esempi riportati sono ahimè instar omnium) brillerà quanto la più seria delle traduzioni. Ma se il suo autore pensasse di poter dormire sugli allori, basterà Arno Schmidt a scrollarlo, il quale in Tina o Dell’immortalità racconta di come, ogniqualvolta un lettore legge un titolo, l’autore smette di riposare in pace. Amen.