Amo le storie di provincia, forse perché la provincia suggerisce, rivela, commenta, rende leggenda tutto ciò che la città nasconde.
In provincia i peccati si commentano prima che siano commessi, gli adulteri, i peccatori inutilmente si nascondono dietro le facciate, in quelle stesse facciate si aprono finestre difese da gelosie e dietro le gelosie si celano i biografi, i cantori, i trouvéres delle storie che saranno cantate nei caffè, nei salotti e nelle alcove.
Piero Chiara mi ha iniziata a queste passioni raccontando a me e ad amici, all’infinito, le trame dei romanzi ai quali lavorava: di volta in volta, registrando le nostre reazioni e ascoltandosi, capiva che cosa doveva essere cambiato, amplificato, taciuto.
Così abbiamo assistito alla nascita dei suoi racconti più belli, potendo scommettere su nomi e cognomi dei personaggi di cui poco era cambiato, giusto il nome, per non incorrere in querele.
Anche Camilleri era un grande affabulatore, anche lui girava intorno alla sua “Storia” come un’ape intorno a un fiore, anche per lui la provincia, la contrada, il villaggio sono stati il vero palcoscenico sul quale far scorrere peccati e peccatori, presenti e passati. Infatti, il vero nucleo portante del romanzo ambientato in un luogo ristretto, mai città, quasi sempre paese, è il peccato.
Anche in questo romanzo di Gianni Spinelli intitolato La scatola di cuoio, si respira e si assorbe aria sulfurea dalle prime pagine, tanto più odorosa di zolfo in quanto il protagonista, assente perché muore quasi subito, ma presente perché tutto ruota intorno alle sue trasgressioni, è un religioso.
Don Pantaleo, frate vizioso, lussurioso e avido, che si trincera dietro una supposta santità per nascondere al vulgo la sua vera natura. Ama il potere, il denaro, accaparra, compra, accumula aiutato da una complice nefanda al par suo, donna Marta, moglie di un nipote inetto e accondiscendente.
La morte di Don Pantaleo, il testamento che nomina erede universale donna Marta, dà inizio alla kermesse che vede alternarsi alla corte della baffuta matrona fratelli e nipoti, ansiosi di ottenere una fetta di quel ben di Dio accumulato dal frate.
In paese qualche verità è trapelata, si mormora, si parla apertamente di omicidio a margine di una morte così provvidenziale, ma il povero maresciallo dei carabinieri si trova tra l’incudine e il martello e dopo una serie di confusi interrogatori, perché chi sa non parla ma suggerisce, deve chiudere l’inchiesta con un nulla di fatto.
Si alternano nel racconto, pieno di annotazioni di arguzia contadina, il notaio interessato al patrimonio, che da subito dirige l’orchestrazione dei testamenti di volta in volta redatti e poi stracciati, perché sempre il destinatario si rivela indegno di tanta fortuna, i fratelli, le nipoti riluttanti, la serva che sa tutto, il paese con le sue dicerie.
È un balletto di eventi dentro e fuori la grande casa piena di misteri, di voglie represse, di ingordigie inconfessate.
Forse la pagina più bella descrive la scoperta della stanza segreta, ignota a tutti e chiusa a doppia mandata (una chiave con bocciolo di rosa), dove le due ultime nipoti, accettate in casa da donna Marta, trovano settanta cappelli femminili e altrettante collane bellissime, che indosseranno svestendosi, mirandosi nude – ma con collana e cappello – negli specchi che fanno da pareti, mimando la creatura svergognata alla quale quei beni erano appartenuti.
Una pagina di vera suspense godereccia, ma finisce lì, un’occasione mancata nel romanzo che ha bisogno di questi lampi per accendersi.
Le rivelazioni finali, il vero testamento trovato nella scatola di cuoio, l’erede morto nell’incendio della grande casa, non alzano la tensione, non riescono a creare un vero noir, non danno corpo al romanzo che, alla fine, sembra afflosciarsi su se stesso, come un budino che non ha avuto il giusto grado di cottura.
Recensione a La scatola di cuoio di Gianni Spinelli, Fazi, 2019, pp. 213, euro 16,00.
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