Se Alberto Arbasino ha voluto rappresentare lo scrittore cosmopolita, pur avendo la provincia nell’anima, Dino Campana ha girato il mondo, spesso a piedi, pur di imporre quei Canti Orfici che oggi rappresentano una delle opere poetiche più importanti e innovative del ’900 italiano. A ricostruire la vita di questo Antonio Ligabue della poesia, scacciato da tutti per la propria volontà di isolarsi e non “adattarsi” a una società intellettuale che detestava (tanto da finire più volte in manicomio) è Gianni Turchetta in Vita oscura e luminosa di Dino Campana Poeta (Bompiani, pagg. 454, euro 18, e-book euro 9,50). Una biografia, edita anni fa per Feltrinelli ma qui molto ampliata, che ripercorre le ombre lucenti dei passi lirici di Campana che lo costrinsero a imboccare la strada delle tenebre con l’internamento definitivo dal 1918 al 1932, quando morirà in manicomio a seguito dei tantissimi elettroshock. Nato a Marradi, sull’Appennino tosco-emiliano, nel 1885 ad appena quindici anni inizia a viaggiare senza sosta: percorre l’Italia a piedi e oltrepassa le Alpi per andare in Svizzera, Francia e Belgio per sbarcare in Sud America per poi tornare in Italia. La sua ossessione è far pubblicare il suo primo volume di poesia e così si rivolge a Giovanni Papini e Ardengo Soffici prima attraverso un carteggio riportato tra queste pagine e che ci fa intuire la tempra di Campana (scrive loro che rappresentano “la pedanteria italiana che impassibile troneggia nelle vostre truculenze” per poi firmare le lettere “Con nessuna stima”). Poi il poeta decide di portare loro il manoscritto di persona alle “Giubbe Rosse”, il caffè che in quegli anni era il ritrovo degli intellettuali: Soffici e Papini ricevono il manoscritto per poi perderne l’unica copia. Campana lo riscriverà a memoria per poi pubblicarlo in proprio: poche centinaia di copie e oggi ne esistono pochissime integrali perché Campana le vendeva e mentre decantava i versi agli acquirenti strappava le pagine “perché tanto non potete capire la mia poesia”. Campana sarà riscoperto postumo perché, come aveva scritto quasi intuendo il proprio destino, “Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili”. Oggi i Canti Orfici rappresentano un’opera fondamentale per comprendere la poesia del ’900: ammirato da Eugenio Montale ha ispirato, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini e Mario Luzi e la sua non è da intendere come semplice “follia” ma come metafora vivente di una società che non accetta il diverso, pur geniale, se non si piega alle sue regole. Perché Campana ha la pazzia del mondo, il potere della sofferenza e dell’assurdo.
Gian Paolo Serino