Siamo a est di Los Angeles e sulle montagne divampa un incendio. Divampa un incendio esattamente a pagina 99 della raccolta di Gina Berriault, Donne nei loro letti, (Women in their beds, 1996), pubblicato a giugno da Mattioli 1885 con la traduzione di Francesca Cosi e di Alessandra Repossi. E che divampi è chiaro già dal titolo del racconto che è Incendio boschivo. Senza articolo. Non serve perché una grossa nuvola di fumo marrone, «tinta di rame dallo spuntare del sole», sovrasta il deserto e le cittadine che Penny attraversa a grande velocità per andare a trovare la madre. È intimorita, Penny, e le pare che il cielo possa essere così soltanto negli incubi. Qualcosa la spinge avanti anche se vorrebbe fermarsi sotto la lunga fila di eucalipti, appoggiare la testa sul volante e dormire, «rimandare il momento in cui avrebbe abbracciato la madre portandole notizie del mondo che si trovava fuori dalla sua villetta intonacata di rosa al limitare del deserto». Perché Penny non è tanto convinta di volerla andare a trovare, la madre, ma nonostante questo, supera gli eucalipti, i campi, le baracche, un enorme fico e un cane nero che cammina tranquillo in un fosso. Penny avanza, accelera, e noi lettori percepiamo una minaccia. Sta per succedere qualcosa, pensiamo: l’incendio è un correlativo oggettivo, serve ad accrescere la tensione e a connotare lo stato d’animo della protagonista di questo breve racconto, soltanto sette pagine, breve e indelebile e che dovrebbe essere letto e studiato nei laboratori di scrittura creativa.
Sul sedile accanto a Penny c’è un romanzo, «intoccabile, nefasto, come un oggetto rubato da una tomba». Imboccando una curva, il libro scivola e una lettera che è all’interno cade sul tappetino. Poi cade anche il libro, finendo sui pedali, e Penny lo schiaccia. Dopo aver superato l’ingresso di un campo carovan e una fila di case basse, ecco comparire la casa dipinta di rosa, simile a una scatola, a due piani, circondata da una recinzione. Madre e figlia si abbracciano. Sono quattro mesi che Penny non vede la madre e ora la trova invecchiata e le dice: «Mamma, se qualcuna delle mie azioni ti ha fatto invecchiare di colpo, perdonami». La madre la stringe a sé: è rimasta in silenzio e ora le chiede se le ha portato il libro di Chris. Penny ostenta felicità, dice di sì, «proprio così, un po’ di pazienza». Ma Penny non è affatto felice perché quel romanzo “intoccabile e nefasto” lo ha scritto l’uomo che forse era suo marito e che ora vive a New York con un’altra persona. «Tutti quelli che fanno questo lavoro tradiscono» dice Penny riferendosi all’ex marito. E poi, come a difendersi e a giustificarsi, aggiunge: «Mamma, non sono io. La ragazza del romanzo non sono io. Lui non ha capito niente. Non mi assomiglia affatto. Non gli ho mai creato tutti quei problemi e non sono mai stata amata come la ragazza del libro. Tutti penseranno che sono io e invece non è vero». Perché secondo Penny, Chris è stato sempre affascinato dalle donne di carta, da Emma Bovary, da Molly Bloom e da «quella ragazza impazzita per Heathcliff», ma quando ha provato a mettere lei in parole, ha sbagliato tutto.
Adesso lo capiamo. Avevamo pensato che il fumo fosse un presagio di qualcosa che sarebbe successo a breve e invece in questo racconto tutto è ormai accaduto. È una confessione, questo racconto, è l’addensarsi del fumo dopo l’incendio. È il tentativo di raggiungere un luogo protetto e piangere per la pena che si prova dentro. Pena di sentirsi traditi e traditi due volte: dalla vita reale e dal racconto che di questa vita viene fatto da chi credevamo ci amasse. Ma è anche un atto di accusa che Gina Berriault rivolge alla scrittura che è sempre tradimento, “finzione”, perché «nessuno può sapere come vive una persona. Si pensa di saperlo ma non è così». E facendo dire questo a Penny, la Berriault ce la fa vedere nell’atto di sciogliere le sue mani dalle mani della madre per posarsele sul petto e continuare: «È un territorio ignoto. Questo, mamma, è un territorio ignoto, non lo conosco bene nemmeno io. L’unica cosa che sento è il frastuono».
Ecco allora che il deserto, le cittadine attraversate, gli eucalipti, il campo carovan e la fila di case basse sono il territorio ignoto esterno a Penny, quello in cui lei si muove come una sonnambula. Perché in questo senso la Berriault costruisce un racconto al di fuori delle regole stesse della forma racconto, dove quella che i greci chiamavano anake – la dea della fatalità, appunto – si è già espressa. L’unico atto di rivolta che Penny può compiere è quello di schiacciare il romanzo. Come fosse un insetto o un ragno. Che però non può uccidere: il romanzo è stato scritto, la vita di Penny è ormai già compiuta (o incompiuta) e il frastuono di cui lei parla è il riverbero sonoro di un destino che è stato espulso dalla trama stessa del racconto. Per tutto questo noi proviamo dolore e sconcerto leggendo queste poche pagine, quasi stessimo assistendo a qualcosa di talmente intimo, vero e autentico (e questo nonostante la letteratura sia sempre finzione) da sentirci quasi in colpa. Come se stessimo spiando una figlia e una madre che si incontrano dopo quattro mesi per lenire ognuna le sofferenze dell’altra. Perché la sensibilità che ha la Berriault nel restituire il baratro dei sentimenti è sconvolgente. Sconvolgente e bellissimo. Madre e figlia non fanno che toccarsi le mani, abbracciarsi, stringersi, e se dapprima è solo una delle due a cercare il contatto, alla fine si alzano all’unisono e si stringono forte e Penny sente il viso della madre premere sui suoi seni e si ricorda della volta in cui la madre le disse che «quando era appena nata e si era messa a piangere, dai suoi seni era zampillato di colpo il latte, bagnandole la camicia da notte. Di colpo, anche se lei e la figlia erano in stanze diverse». E poi, sempre tenendosi abbracciate – come fossero una persona sola – Penny accompagna la madre in cortile per vedere la luce del deserto, per cercare in essa una ragione per calmarsi e resistere. E noi le vediamo queste due donne, le vediamo nel cortile, sotto l’alta palma, madre e figlia: non sapevamo niente di loro fino a poco fa e niente più ne sapremo fra poco, dove andranno, cosa faranno. Le vediamo per un’ultima volta, prima che la Berriault compia un movimento e inquadri il cielo, a ovest, dove il fumo – la minaccia incombente che intanto si è spostata – è come una sera che scende all’ora sbagliata. E così finisce il racconto, che è, ripetiamo, lungo soltanto sette pagine, ma condensa, con rara efficacia, tutto il mistero della vita che siamo e che qui intravediamo senza che mai niente sia dato per scontato. Nessuna descrizione o dialogo o gesto dei personaggi è banale o forzato o non strettamente necessario. Niente esisteva prima eppure è come se fosse sempre esistito – Penny, sua madre, la casa rosa, il nostro essere così fragili e al contempo potenti.
Come sia possibile scrivere così, con tale intensità, anche questo è un mistero che per fortuna nessuno studio critico, per quanto approfondito, saprà mai esaurire fino in fondo. Perché esiste un dappertutto che nessuno potrà mai misurare, né con la nostra mente né con qualsiasi altro strumento, ci dice la Berriault in un altro racconto, e quel dappertutto, sempre al di là della nostra comprensione, è il dolore e il senso di disperazione. E se così è, a volte la letteratura a questo dovrebbe limitarsi: a farci scorgere qualcuno che entra nel dappertutto dal quale non tornerà più indietro.