Un artista puro la cui spontaneità non risparmia neppure Pavarotti col quale ha cantato Il cielo in una stanza al Pavarotti & Friends del 2002: “Alle prove, vedo sotto il palco un tizio che gesticola. Finiamo di cantare, scendo e gli chiedo: “Scusi, ma lei chi è?” “Sono il maestro di canto del maestro Pavarotti.” “E che cosa fa?” “Gli do l’attacco. Se non gli faccio segno non riesce a entrare.” “Ma come? Fa il tenore da una vita e non sa quando entrare?” Non mi ha risposto.”
Dal primo novembre è in libreria Cosa farò da grande. I miei primi 90 anni di Gino Paoli che si racconta all’amico Daniele Bresciani, giornalista e romanziere (Bompiani 2023, pp. 304, € 22,00). Il libro, citando l’omonimo album del 1986, ripercorre la vita e le esperienze del cantante che con Tenco, Lauzi, De André e altri costituisce il primo nucleo della cosiddetta scuola musicale genovese. Si parte dalla passione per il pugilato, agli esordi nella musica, alla collaborazione con Mina con Il cielo in una stanza grazie a un’intuizione di Mogol, fino all’esperienza da deputato o all’incontro con Indro Montanelli che alla festa dei suoi novant’anni lo accoglie così: “Oh, finalmente! Il grande poeta!”.
Gino Paoli ci regala un libro che è storia della musica e svela un artista poliedrico con un’estetica emotiva, profonda ed essenziale: “C’è qualcosa nella vita di tutti i giorni che mi colpisce, che mi si agita dentro ma che non riesco a esprimere. Qualcosa di astratto, di immateriale. Ma come si fa a dare corpo a qualcosa di immateriale? Bisogna girarci intorno. Spargere degli indizi – i versi della canzone, che devono essere sempre tutt’uno con la musica – come sassolini. Poi sta a chi l’ascolta cogliere quello che c’è dietro a quei versi, il “non detto”, il “disegno” che vanno a comporre”.
La collaborazione con Vasco Rossi in Quattro amici al bar è vissuta come il segno di una similitudine ontologica: “Io ho sempre visto Vasco come l’unico mio erede possibile. Lui è quello che sarei io se fossi nato vent’anni dopo. Il linguaggio è diverso ma lo spirito è lo stesso, perché lui interpreta la gioventù di oggi come io interpretavo quella di ieri. Anzi, per essere più preciso Vasco interpreta i balordi di oggi come io interpretavo i balordi di ieri”.
Non manca l’arte di parlar chiaro in casa: ““Ragazzi, ora vi devo dire una cosa. Io non ho nulla in contrario se ogni tanto volete farvi una canna. Ma per fumarsela ci vuole la marijuana e bisogna sapere dove andarla a comprare. In posti dove spesso ci va la polizia sotto copertura. E dove magari qualche agente non vede l’ora di fare il colpo grosso e finire sul giornale perché ha arrestato i figli di Gino Paoli. Di conseguenza, fossi in voi, non andrei a comprarla,” al che ho fatto una pausa, minaccioso. “Molto più semplice sarebbe andare in cucina, aprire il barattolo vicino al basilico, e usare la mia, che è buona, magari a un concerto che vi piace.””
Ma la parte più inedita è quella dell’intellettuale raffinato che apprezza la poesia di D’Annunzio, la traduzione di Luciano Bianciardi per Tropico del Cancro di Miller, quella di Pavese per Moby Dick di Melville, il Pessoa tradotto da Tabucchi, L’Ulisse di Joyce, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque o Diceria dell’untore di Bufalino.
E così, con la schiettezza del genovese Paoli ci dona il capolavoro di una vita piena: “Tutto quello che potevo sbagliare io l’ho sbagliato. Non mi sono risparmiato nulla. E ora ho deciso di raccontare non solo le cose che volevo fare e che ho fatto ma anche tutte quelle che volevo fare e che poi non ho fatto. Le cose che dovevo fare e che non ho fatto. Quelle che non dovevo assolutamente fare e che invece ho fatto. Perché ho imparato che per risalire dal buio verso la luce bisogna saper rimanere da soli con sé stessi, ed essere onesti”.
D’altronde “Le strade sono giuste anche quelle sbagliate basta non esser certi mai…” cantava Paoli in Cosa farò da grande.
Un grande artista che prima della musica impegnata ha sempre saputo scrivere quella impegnativa.
Carlo Tortarolo
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“Paoli?”
Alzo gli occhi dal disegno che devo consegnare entro sera e mi trovo di fronte uno dei fattorini.
È il 1962 e da quattro anni lavoro come grafico a Sigla Effe, un’agenzia pubblicitaria di Genova di proprietà di Ernesto Fassio, uno dei grandi armatori italiani del dopoguerra, un imprenditore che possiede quotidiani importanti e agenzie di assicurazione. Da quattro anni tutte le mattine mi sveglio, passo dalla stazione Brignole, arrivo davanti al grande palazzone incurvato, tra via De Amicis e via Varese, salgo le scale ed entro in ufficio. Stampiamo manifesti, dépliant, cataloghi illustrati, quella roba lì.
Ho ventotto anni e ho già avuto successo con La gatta, Il cielo in una stanza, Senza fine. Sono stato anche a Sanremo e al Cantagiro. Così succede che la gente che mi incrocia per strada mi riconosca perché mi ha visto sulla copertina di un disco o alla televisione. In più dipingo. Mi piace e mi riesce bene. I miei quadri sono stati in più di una mostra, di recente li hanno esposti a Milano e addirittura qualche critico ne ha scritto sui giornali. Penso di essere sulla buona strada perché questo diventi il mio mestiere. Piacere, Gino Paoli, pittore. È solo questione di tempo.
Eppure… Eppure nella primavera del 1962 sono lì, otto, nove ore al giorno, chino sulla scrivania a tirare linee su un foglio.
È quello che mio padre Aldo voleva da me. Lui, ingegnere navale, si era ritrovato un figlio che di studiare proprio non aveva voglia e allora aveva deciso di farlo specializzare in disegno tecnico, perché imparasse un mestiere. Perché sì, vanno bene le tele imbrattate, i colori a olio, i “disegnini”, il complesso canoro, i dischi jazz, ma quelli sono distrazioni, divertimenti, e per farsi una vita, sistemarsi, ci vuole il “posto fisso”. L’arte non è un lavoro come gli altri. Anzi, per alcuni non è nemmeno un lavoro.
Parlo di sessant’anni fa, ma in questo l’Italia non è granché cambiata da allora. E così io sono lì, alla Sigla Effe, a occupare una scrivania, aggiustare bozzetti, sistemare ritagli, comporre sfondi in bianco e nero. Mi annoio, insomma. E allora faccio schizzi sul bloc-notes, mi lascio andare ai pensieri mentre una melodia viene a trovarmi, guardo le auto sfilare fuori dalla finestra, noto se passa una delle ultime macchine uscite di fabbrica, come la Fiat 1100, o mi esalto se sento il rombo di una Giulietta Sprint.
Per questo, a volte, mi distraggo. La cosa non piace affatto al mio capoufficio.
“Paoli?”
Guardo il fattorino con aria interrogativa. In sottofondo, il rumore cadenzato di un treno che passa.
“Vuole vederla,” risponde alla mia domanda silenziosa.
“Chi?”
Fa un cenno con la testa, verso un ufficio: “Gambaro.”
Gambaro è il direttore dell’agenzia, così mi alzo, mi do una sistemata. E mi avvio verso l’ennesima lavata di capo.
“Buongiorno, Paoli. Si accomodi.”
Mi siedo di fronte a lui. Ci separa una grande scrivania piena di pieghevoli e stampe, tutta la produzione della Sigla Effe in bella mostra.
“Come sta?” mi chiede.
“Bene, grazie.”
“Mi sembra di poter dire che stia avendo un discreto successo. Con la musica, intendo. O sbaglio?”
“Sì, abbastanza,” rispondo a bassa voce, un po’ a disagio.
“Le posso fare una domanda?”
“Certo.”
“Quanto prende per una serata?” Mi rilasso. Ho capito. Vuole propormi un ingaggio, di esibirmi per i colleghi, magari anche qualcosa di più importante. Me la devo giocare bene.
“Centoventimila lire,” rispondo.
Lui fa una pausa. Distoglie lo sguardo, mi faccio l’idea che mentalmente stia facendo due conti. Invece non è così, perché di colpo chiede: “E qui?”
“Scusi?” ribatto perplesso.
“Qui da noi, intendo. Come grafico. Quanto le diamo?”
“Sessantamila…”
“Al mese.”
“Sì, al mese.”
Sorride, senza smettere di fissarmi: “Mi scusi, Paoli…”
“Sì?”
“Non crede sia ora di dare le dimissioni?”