Dopo la scrittura di Corrado Alvaro sentivamo la necessità di trovare un suo erede naturale capace di farsi delle domande e permetterci di trovare delle risposte nella terra, nel mare, nella capacità di ascolto di una natura calpestata e redenta, uno scrittore in grado di affrontare la vita con la testa e il cuore di un popolo intero che conosce la sofferenza e da questa stessa trae forza perché la natura non inganna a saperla ascoltare.
Ed ecco l’ultimo romanzo di Gioacchino Criaco che ha esordito nel 2008 con Anime nere, da cui è stato tratto il film omonimo, vincitore di nove David di Donatello e di tre Nastri d’Argento. Giacchino Criaco è figlio di pastori, è nato ad Africo “un posto a cui i suoi fondatori avevano dato il nome di un vento, il libeccio, che portava aria calda dal deserto e rendeva il clima dolce anche in inverno, fin sulle cime innevate dell’Aspromonte, dove un tempo sorgeva il paese”.
Il custode delle parole è un romanzo amaro e pieno di amore per la vita. E’ soprattutto un romanzo politico del quale sentivamo il bisogno e la necessità. Andria, un uomo di quasi trent’anni, vive ai piedi dell’Aspromonte, che non vuole dire “monte aspro”, bensì per l’antico lignaggio dei greci significa “monte lucente” protetto da una divinità, come qualche anziano ancora la chiama la “Mana gi”, la Grande madre colei che tutto ascolta e custodisce e ci offre in dono. Gioacchino Criaco dedica a lei questo romanzo, alla madre aspromontana e a tutti i suoi figli che resistono.
Andria lavora in un call center e apparentemente rimane in Calabria solo per la sua fidanzata Caterina. Non sa cosa fare della sua vita. Una Calabria che ci spinge lontano perché nulla offre, una Calabria dove si torna solo da sconfitti o da pensionati acquistando la terra e costruendo una casa. Una Calabria di emigrati. Ma c’è un altro Andria, il vecchio, il nonno. Un pastore che conosce parole dimenticate e le insegna al nipote e gliele vuole donare insieme alla terra, alle sue pecore e alle capre selvatiche che si fanno tirare il latte spontaneamente e come sono venute se ne tornano libere tra i monti.
Un romanzo potente e generoso, fatto di parole incise nel legno che arde e nelle asce che sanno ancora colpire dove l’uomo ha voluto ingabbiare gli elementi e trasformare questa terra anche essa potente e generosa in schiava di una società che vuole tutto intrappolare e trasformare in terra arida e cuori chiusi all’incontro.
La Calabria, una terra dalla quale si parte per tentare la sorte e nella quale si arriva per sfuggire a un destino crudele. Andria salva Yidir da un naufragio, uno dei tanti. Yidir viene dalla Libia, gli hanno detto che ha cinque vite da spendere. Questa volta la sua quarta vita gli viene salvata da Andria il giovane e Andria il vecchio lo proteggerà portandolo con lui in montagna a custodire le pecore.
La salvezza di Yidir è anche la salvezza di Andria, il giovane, che passo dopo passo si riavvicinerà a suo nonno Andria, il vecchio, che conosce le parole e amerà con tutto se stesso Caterina che gli donerà la capacità di intravedere un mondo nuovo. Andria troverà la sua strada facendo delle parole del passato provvista e imparando a custodirle a sua volta.
Personaggi che emozionano, che tracciano per noi un percorso non di sole parole, ma anche di immagini, di sogni e di miracoli, sì di miracoli che solo coloro che resistono, coloro che riescono a immaginare, sognare, possono sperare di vederli tramutati in realtà. Uomini e animali e il cane Calinero “Gli accarezzo la testa e passo le dita nel folto pelo bianco, dal collo fino alla coda. Pace sì, anche con lui: è fradicio di pioggia e odora di terra buona – quando lo vidi la prima volta mi era sembrato un pulcino bagnato. E l’unico pulcino di cui allora conoscessi il nome era Calimero, il pulcino tutto nero di una vecchissima pubblicità che ogni tanto riproponevano in televisione” … “Solo nonno non disse nulla, ma lui non era come gli altri, la tv non la guardava, e soltanto lui capiva che il nome vero era Cali Nero, con la enne: Buona Acqua, la nostra gente la lingua dei padri non la comprendeva più”.
Come non pensare a Cutro, a quella capacità di fare proprio un dolore che non è distante dal nostro. Dare accoglienza significa anche sapere capire nelle viscere e nel sangue, ma anche nel sorriso e nel pianto quello che di noi è ancora umano, così che il fratello possa chiamare l’altro fratello. In fondo siamo stati fatti e plasmati per amare ed è questo che ci racconta il custode delle parole.
Maria Caterina Prezioso
#
Il custode delle parole/ Gioacchino Criaco/ Feltrinelli/ pp. 200/ 17,00 €