Grande che non è Piazza Maggiore, le partitelle al mitico torneo di Gaibola, la prime canzoni, Tobia, mamma Jole, il bar dove è nata Anna e Marco, lo studiolo Cagnara Records dei premontaggi, le notti alla Fonoprint, le manie, le visioni apocalittiche, le ispirazioni e le classifiche da aggiornare sui primi dieci imbecilli del momento. A Bologna con Giorgio Comaschi, giornalista e attore, viaggia per Bologna attraverso i luoghi di Lucio Dalla, raccontando la città delle osterie, del “cazzeggio”, delle notti infinite a giocare a carte e a bere vino, dei personaggi strambi, dei soprannomi e delle grandi contraddizioni di una città dal fascino indefinibile. E lo fa, grazie al suo rapporto di lavoro e di amicizia con Lucio, sulle tracce di uno dei cantanti simbolo di Bologna, facendo nascere una curiosa guida letteraria fatta di aneddoti, luoghi da visitare, ristoranti e osterie, bar e angoli segreti con due punti vista: il suo e quello degli occhiali rotondi dell’inimitabile Lucio.
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Intanto i colli. Un modo di vivere del bolognese, l’evasione a cinque minuti, il cambio di prospettiva in un attimo. I colli cantati da Cremonini con la sua Vespa, ma da sempre la meta, o meglio una delle tre mete, diciamo classiche, di chi è nato a Bologna. La prima sintetizzabile dalla domanda: “Andiamo a fare due pieghe sui colli?”. La seconda: “Cosa fai, vieni giù nel fine settimana?”. Il giù sottintende il mare, ma più precisamente Riccione prima e poi Milano Marittima in alternativa negli anni successivi (l’ultima più fighetta meno vitellona, più sbarba). Il bolognese quando parla di mare si illumina. Andare al mare è un terminale di tutte le generazioni (un’ora circa di macchina rende il sogno alla portata). E infine la terza. “Vieni su a Natale?”. “Su” è Cortina. Ma Riccione e Cortina non sono quasi mai state pronunciate, ma sottintese. Solo o “giù” o “su”, confidenzialmente. La seconda e la terza meta hanno entrambe, nel fondale delle intenzioni, il terminale romagnolo classico da conquistare e da sublimare e cioè la cosiddetta e mitizzata “gnocca”. Per le donne è “il manzo”. Non vogliamo essere volgari. “Gnocca” ormai non è più un termine volgare in queste lande. E’ ormai un intercalare. Come quando il bolognese dice “Soccia!” che non ha più (per fortuna) il significato letterale del termine (“succhiamelo”, scusate, andava spiegato), ma è l’esclamazione per eccellenza, codificata nella storia, ruvida e distintiva caratteristica della parlata locale.
Sui colli invece c’è più poesia, c’è il giretto, c’è il prendere il fresco, c’è il mangiare due tigelline dal Nonno, c’è un salto a San Luca a farsi una pizza e una birra da Vito. E poi sui colli c’è, anzi, c’era, il famoso Torneo di Gaibola.
Il Torneo di Gaibola era una sfida a calcio a cinque più il portiere, epica ma molto spelacchiata e parrocchiale, fra la sinistra e la destra della Bologna degli anni Settanta. E si trovavano in Piazza San Domenico, dove già quotidianamente venivano inscenate, nei tardi pomeriggi, partite sui sassi, con le porte fatte coi maglioni e i cappotti. Lucio era fisso in quelle sfide, fino quando non veniva buio e doveva tornare su in casa.
Ma l’appuntamento del Torneo di Gaibola era un evento biennale, primaverile e autunnale. Vespine e macchine pronte, 500 col tetto apribile e via, sui viali di circonvallazione, curva a sinistra fuori Porta San Mamolo e salita fino alla chiesina di Gaibola (c’è ancora) che aveva davanti un pezzo di terreno delimitato da argini di terra, due porticciole scalcagnate, molta sabbia e pochi ciuffi d’erba, tristemente sparsi qua e là. Le squadre (a cinque) avevano nomi importanti.
Lucio Dalla giocava nel “Vento dell’est” con i fratelli Bonaga, la squadra comunista, perché il vento dell’est era simbolo di sinistra. Poi c’erano i “White Eagles”. I “Renegades”, gli “Idoli”. La squadra di destra di Nini Veronesi si chiamava “L’assalto”, ci giocavamo quelli che si definivano “i fascistoni”. Poi Lucio cambiò nome alla sua squadra e la chiamò “I Sodomiti” ed era entusiasta della scelta. Sfide epiche, polverose, dal 66 al 70. Basette da brividi, zampe di elefante, criniere da Jimi Hendrix ma anche camicine da “sborroni”, azzurre, prerogativa dei fighetti del Bar Zanarini. Era il torneo dei soprannomi. Lucio era già Tombolino da un po’. Bruno Zucchini era “La medicina” perché quando entrava, essendo bravissimo, ribaltava la partita e la sua squadra vinceva. E c’era “Pegno”, che si chiamava così da quella volta in cui fu dato in pegno al parroco della Fortitudo Pallacanestro in cambio del pallone per giocare che nessuno possedeva. Alla fine della partita la mamma del parroco riceveva indietro il pallone e liberava “Pegno” che era rimasto in casa con lei, al davanzale tutto il tempo. La stessa cosa succedeva a Gaibola. Negli anni a seguire il soggetto, che si chiamava Pinotti, era diventato per tutti Pegno. E lui stesso, quando si presentava a qualcuno, diceva “Piacere Pegno”. Anche al telefono diceva: “Pronto, sono Pegno”. E la cosa all’inizio faceva ridere, ma poi era diventata consuetudine scontata.
C’è da dire che una delle grandi attrattive del Torneo di Gaibola era che si radunavano lassù, in quei pome- riggi, le più belle ragazze di Bologna. Venivano a vedere i rispettivi ragazzi portando anche la classica “amica”, quella della frase tipica: “Chiedi se la tua ragazza ha un’amica…”. Quindi era quello un momento fondamentale, favorito anche dai pruriti e dalle sverzure primaverili, per nuovi “intorti” e corteggiamenti. Ormoni a mille insomma, sullo sfondo delle partite del torneo. Alla fine ammaccature varie, strappi muscolari, ginocchia con crostoni fissi per mesi e sfottò su vittorie e sconfitte che si protraevano negli anni.
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Per gentile concessione di Giulio Perrone Editore