“Non molte persone comprarono quel disco, ma tutti quelli che lo comprarono formarono una band”. Questa è la battuta attribuita al musicista Brian Eno a commento dell’impatto che ebbe The Velvet Underground & Nico, il disco d’esordio del gruppo rock statunitense Velvet Underground, guidato da Lou Reed e John Cale. Quando l’album uscì, nel 1967, fu un flop commerciale. A nulla valse la produzione firmata da Andy Warhol che ne disegnò anche la copertina con la (divenuta poi celebre) banana gialla su sfondo bianco da “sbucciare”.
Con il suo approccio crudo e innovativo, la combinazione di elementi di noise, rock e testi provocatori, il disco aveva un suono abrasivo, troppo avant-garde per essere apprezzato dalle masse in una scena musicale dominata dalla Summer of Love e da gruppi come i Beatles e i Doors, con sonorità più accattivanti e accessibili. Solo con il passare degli anni, critici e pubblico hanno riconosciuto il valore rivoluzionario e pionieristico di questo album.
Oggi, The Velvet Underground & Nico è considerato uno dei capolavori del rock e uno dei dischi più influenti di tutti i tempi che, nonostante il fallimento iniziale, ispirò un’intera generazione di musicisti andando ben oltre il rock e arrivando a toccare generi come il punk, la new wave, l’industrial e l’alternative rock.
Quelle stesse parole di Brian Eno, adattate, possono essere rivolte a Le Venti Giornate di Torino di Giorgio De Maria: quando uscì per la prima volta nel 1977, per la casa editrice Il Formichiere, non molte persone comprarono quel libro, ma tutti quelli che lo lessero non riuscirono più a staccarselo di dosso. Dopo una prima e infelice pubblicazione, i riflettori non ebbero neppure il tempo di accendersi, il libro di De Maria fu inghiottito dalla dimenticanza. Ma se è vero che “ciò che è condiviso non può mai essere cancellato” ecco che silenzioso, Le Venti Giornate di Torino, cominciò a fare il suo giro passando di mano in mano e, come un’eco, tornò in patria da oltre oceano.
L’oblio che aveva avvolto il romanzo si dissipò grazie a una serie di coincidenze che portarono alla sua pubblicazione negli Stati Uniti nel 2017, con l’acquisto dei diritti da parte del gruppo Norton. The Twenty Days of Turin ricevette un numero considerevole di recensioni, tra cui quella entusiastica del Los Angeles Review of Books, oltre alle critiche positive di scrittori come Jeff VanderMeer, figura di spicco del movimento new weird.
Fu il critico e traduttore australiano Ramon Glazov, autore della prefazione all’edizione americana, a riscoprire l’opera di De Maria. Alla ricerca di un libro italiano da proporre a un editore statunitense, Glazov entrò in possesso di questo romanzo dimenticato grazie a un amico torinese, frequentatore della storica libreria Sevagram di Riccardo Valla, punto di riferimento per gli appassionati di fantasy, horror e occultismo nella Torino degli anni Ottanta.
Sulla scia dell’interesse americano, a quarant’anni dalla prima pubblicazione, Le Venti Giornate di Torino tornò in Italia grazie all’editore Frassinelli, con la postfazione di Giovanni Arduino che dedicò al libro un appassionato e dettagliato saggio epistolare dal titolo Il Diavolo è nei Dettagli. La Storia delle Venti Giornate di Torino. Oggi, l’opera di De Maria continua a risplendere di luce propria grazie a una nuova edizione pubblicata da Neri Pozza.
La trama è questa. In un’estate afosa e secca, un’insonnia di massa si diffuse tra gli abitanti rimasti in città. Preda di una psicosi collettiva, i cittadini vagavano come ombre per le strade del centro storico. Grida terribili cariche di “una virulenza ostile” si udivano, odori nauseanti infestavano l’aria e le statue sembravano aver preso vita in una catena di efferati e misteriosi omicidi. A questi avvenimenti sembrava essere legato un bizzarro esperimento sociale: nell’ala isolata di un sanatorio gestito dalla Chiesa, alcuni giovani crearono “la Biblioteca” che “si presentava come un’opera buona, nata apposta per indurre gli uomini ad aprirsi l’un l’altro”. Uno spazio dove cittadini solitari potevano leggere i diari personali degli altri e connettersi con anime affini, fino a condividere le confessioni più sprezzanti, macabre e orribili: “un limaccioso sottosuolo, un bacino di scarico dove ognuno poteva rovesciare ciò che voleva, tutta la poltiglia che teneva dentro”. Questo per venti giorni. Poi più nulla. Dieci anni dopo, un impiegato appassionato di storiografia e musica, che funge da io narrante e alter ego dell’autore, decise di indagare su quegli strani e inquietanti avvenimenti che i suoi concittadini non volevano rivangare.
Definito da Arduino come l’unico, autentico romanzo maledetto italiano per trama, atmosfera, vita dell’autore, legami, connessioni, effetti sui lettori, Le Venti Giornate di Torino mostra, con vena ironica e quasi profetica, dinamiche che ritroviamo nel mondo digitale e nella società contemporanea. Un romanzo visionario che anticipa elementi della narrativa new weird sfidando i confini di genere: elementi fantastici e sovrannaturali incontrano il mistero, l’horror, una visione distopica del futuro e una tagliente critica sociale.
E come non sentire, tra le pagine, la voce di Edgar Allan Poe, con il suo senso di angoscia e terrore psicologico, di H.P. Lovecraft, nell’insondabile orrore cosmico, e di Jorge Luis Borges, nell’ambigua fusione tra reale e fantastico in una dimensione metafisica? De Maria si colloca in questa tradizione, trasfigurando le tensioni sociali della Torino degli Anni di Piombo in un inquietante incubo universale. In uno scatenamento di tutti i sensi le percezioni visive, uditive, olfattive invadono una Torino (protagonista indiscussa del romanzo) divenuta claustrofobica, in cui il confine tra realtà e suggestione è dissolto. I mali del mondo si annidano nel sottosuolo, strisciando morbosi in un sogno abissale.
Le Venti Giornate di Torino rimane un’opera centrale per comprendere le angosce e le tensioni dell’Italia di fine anni Settanta, ma al tempo stesso esplora temi universali che risuonano ancora oggi, prefigurando aspetti psichici delle crisi che affliggono la nostra epoca e anticipando di circa trent’anni la cultura dei forum online e dei social media, con le loro inquietanti implicazioni.
Personalità in bilico tra genio e sregolatezza, Giorgio De Maria nacque nel 1924 a Torino da una famiglia di ricchi commercianti in stoffe, poi caduti in disgrazia finanziaria. Trascorse tutta la vita nella città natale che influenzò fortemente il suo immaginario letterario: la Torino esoterica ma ancora di più la metropoli dell’industria automobilistica e del rigore sabaudo. De Maria iniziò la sua carriera come pianista, ma le sue aspirazioni furono drasticamente interrotte a causa di misteriosi crampi alla mano sinistra, forse di carattere psicosomatico. Assieme a Sergio Liberovici, Michele Straniero, Italo Calvino, Fausto Amodei e Umberto Eco fece parte del gruppo satirico-politico musicale Cantacronache che si proponeva di riportare la musica del tempo, considerata frivola e commerciale, al servizio di una riflessione sociale e politica. L’autore ricoprì impieghi dirigenziali alla FIAT e lavorò in RAI, poi da qui allontanato per “scarso rendimento e sciatteria”, come riportato sulla lettera di licenziamento. Fu un critico teatrale per le pagine torinesi de l’Unità. Fervido anticlericale, a metà degli anni Ottanta si convertì al cattolicesimo più ortodosso. La copertina stessa de Le Venti Giornate di Torino, che raffigura Satana che semina la zizzania, rappresenta un chiaro riferimento al Vangelo con forti richiami simbolici all’atmosfera di surreale e inquietante decadenza del romanzo. Amato insegnante di lettere presso un istituto tecnico della città, De Maria scrisse quattro romanzi. Dopo Le Venti Giornate di Torino non pubblicò più nulla fino alla morte avvenuta nel 2009 per pazzia e consunzione. Morì “mezzo barbone, tutto matto, alcolizzato e distrutto dall’Halcion”, come raccontò a Giovanni Arduino la figlia dello scrittore, Corallina De Maria, in un’intervista.
Nella sua avanguardia visionaria, Giorgio De Maria ha saputo guardare il mondo com’è, tolti tutti i veli. Egli descrive come le cicatrici lasciate dal passato possano ostacolare i fragili tentativi di costruire il futuro. Mostra le patologie dell’isolamento cui va incontro la società e al tempo stesso la condanna dell’uomo, destinato a combattere senza sosta i propri demoni, sempre in agguato, latenti sotto le ceneri della sua disperazione cosmica in un baratro di follia senza fondo. In una vera e propria vertigine lovecraftiana, De Maria rivela l’incomprensibilità ultima del male, toglie la maschera alla realtà, per svelare che dietro non c’è volto.
Mariangela Cofone