“Dialoghi con Amin” di Giovanni Ibello (Crocetti Editore, 2022 pp. 72 € 11.00) è un’illuminata reliquia poetica, venerata nel culto della parola, nel suo disvelamento.
La poesia di Giovanni Ibello modula l’elogio del divenire, interpreta l’inesorabile istinto alla spietatezza, seduce la metafisica dell’esecuzione stilistica. Attraversa la metamorfosi degli affanni, rivela una mistica intuizione negli incroci umani dello smarrimento, conferma la sospensione “Ci lega la parola feroce, /una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica, /l’esatto perimetro di un grido”. Giovanni Ibello preannuncia il fenomeno della frantumazione esistenziale, profetizza la deriva ineluttabile oltraggiata dalle tenebre, sostiene la liturgia della perseveranza, la fermezza della solitudine, l’abbandono al saccheggio dell’umanità. Permette il mantenimento elegiaco del verso, nella lucida ed emblematica tessitura dell’urgenza espressiva, nella ripresa simbolica della dissolvenza nella sorgente delle voci. “Amin, avrai una sola occasione, /una sola freccia da scagliare controsole./ Seleziona con cura/l’abisso entro cui implodere”. Il poeta affida alla disperata materia della rovina l’insegnamento delle epigrafi incisive, concede al linguaggio la sconfinata decadenza dei significati. Distingue l’iconografia della caduta, identifica la testimonianza della vita con il carattere esegetico della natura individuale, nella condizione originaria, decifra la rarefatta inquietudine nel cedimento emotivo dell’uomo, trasmuta la destinazione del pensiero della redenzione attraverso l’espiazione della pena inflitta, oltre la propiziazione della verità. I versi rintracciano la santità feconda di ogni presentimento, svolgono il presagio dei contrasti ancestrali, rivelano la provvisorietà del mondo, contaminato tra materialità e spiritualità, destreggiano l’empietà e il perdono, mostrano l’orizzonte del sentimento della compassione, la fatalità della colpa. Intrecciano il sacro e il profano, suggeriscono la percezione che la parola, intrisa di disamore, assorbe nella scrittura “Misuriamo la salvezza con il fiato:/ chi nasce trafigge l’affanno del prima”. Giovanni Ibello afferma la superficie dell’invisibile, la dimensione medianica della riflessione, l’influsso enigmatico e intimamente suggestivo del mistero universale. L’uomo è profilo della propria dolorosa oscurità, versa il coagulo della ferita interiore, discioglie la vertigine dell’incertezza e varca il precipizio delle lacerazioni. Giovanni Ibello trapassa la metafisica delle esitazioni, trafigge la sostanza religiosa dell’inesprimibile con la preghiera laica della bellezza, il residuo della brace consumato dalla consapevolezza della fiamma, la promessa di ogni vocazione, la dedizione in controcanto. “Il desiderio è l’ultimo discanto”, “e nessuno spazio vitale/oltre la curva del sonno”. “Dialoghi con Amin” è paradigma dell’eloquenza, una dottrina visionaria distesa lungo la macerazione della sensibilità e il dissolvimento di ogni imperscrutabile segreto dell’anima. “Pronuncio il suo nome/sul vetro dello scrigno./ Poi lo scrivo con un dito./ Misuriamo le distanze coi respiri:/ e la mia mano trema/sopra una coltre di spilli”.
Rita Bompadre