Contrariamente al solito, parlando di questo notevole “Marilyn Manson. Il rock è morto” di Giovanni Rossi (Tsunami Edizioni, 2022, € 22), non si può fare a meno di partire dalla sua fine, in cui l’autore, con assoluta dovizia di particolari, enumera tutte le denunce per molestie sessuali “collezionate” negli ultimi anni dal protagonista di queste pagine. Come scritto giustamente da Rossi, sarà molto difficile che il Reverendo riesca a passare indenne attraverso una bufera giudiziaria di tali proporzioni e per quanto a chiunque, fino a prova contraria di manifesta colpevolezza, spetti la possibilità di difendersi da accuse ‘sì infamanti, nondimeno sarà difficile vederlo tornare a calcare i palcoscenici di tutto il mondo e ad infiammarli con la sua musica e il suo ricco bagaglio di provocazioni. Detto questo, ed evidenziata la ferma condanna morale da parte dello stesso Rossi verso certi crimini, resta comunque ai posteri la storia di una rockstar, forse l’ultima vera incarnazione di questo “tipo” artistico spesso celebrato a sproposito, che andava nuovamente raccontata, dopo che a farlo in una prima occasione era stato lo stesso Manson nell’ormai introvabile “La mia lunga autostrada per l’inferno”. Ed è una storia che nella sua particolarità, a tratti unicità, meritava di essere ripresa ed approfondita per fornire al lettore una panoramica obiettiva a trecentosessanta gradi su un personaggio che, volenti o nolenti, resterà ancora a lungo tempo nell’immaginario collettivo non soltanto degli amanti della musica rock ma anche della gente comune: troppo furioso e irripetibile è stato infatti l’assalto che Manson ha condotto per oltre un quarto di secolo contro il costume e il luogocomunismo americano, trasformandosi in un fenomeno che è andato ben al di là della musica e di certi “baracconi” mediatici ad essa connessi.
Rossi questa storia ha saputo raccontarla con un piglio giusto, non permettendo mai alla sua comunque evidente natura di fan di prendere il sopravvento sui doveri della cronaca e della trasparenza nel resoconto biografico. E lo ha fatto scegliendo di seguire (in modo del tutto corretto per chi vi scrive) una prospettiva diacronica che ci permette di cogliere appieno la complessità di un percorso umano, intellettuale e artistico che ha portato un ragazzo come tanti del Midwest degli Stati Uniti, Brian Hugh Warner, a trasformarsi in una delle figure più controverse della società contemporanea, amato e odiato in modo spesso così viscerale, da trascendere, probabilmente ben al di là di qualsiasi immaginazione di partenza, le ragioni stesse per le quali era “nata”. A tal proposito, risultano assai illuminanti i primi tre capitoli dell’opera, nei quali Rossi, seppur agevolmente, ricostruisce l’infanzia e la giovinezza della futura “divinità nera” del rock cercando di evidenziare come un tutto sommato normale disadattato della provincia sia stato in grado di sublimare i suoi sprofondi emotivi e la sua frustrazione in un progetto creativo che, a posteriori, ha dell’incredibile se si pensa alla lucidità con la quale è stato perseguito e ai risultati che ha sortito. Ecco allora che ci addentriamo insieme all’autore nel travagliato processo di crescita del futuro Manson, spiandolo in quelle situazioni familiari e di vita di tutti i giorni niente di meno che decisive nell’indirizzarlo verso la sua futura “dannazione” (delle quali, va da sé, non si fa menzione in questa sede per non rovinare la sorpresa della scoperta al potenziale lettore), ma anche in un singolarissimo percorso di sviluppo intellettuale che lo spingerà a intraprendere la sua strada. Particolarmente interessanti sono le pagine in cui si racconta il mondo in cui un ancora acerbo Brian Hugh Werner si trasforma da anonimo giornalista musicale senza futuro nel frontman di una disturbante congrega di “spostati” in grado di mettere a fuoco e fiamme i locali della Florida dei primi anni Novanta dello scorso secolo. Lo sono perché Rossi riesce a farci entrare, niente di meno, nella cerebralità di un giovane uomo che ha capito come imbrigliare il destino alla propria volontà, alle proprie istanze cre-attive, pianificando fin nei minimi dettagli la conquista di un successo che, quando arriva, non lo coglie per nulla impreparato. Molto coinvolgenti sono poi i brani del libro dedicati dall’autore al rapporto tra Manson e il suo culto della volontà e dell’autodeterminismo, in cui si scopre come tutto l’apparato formale e provocatorio sul quale ha saputo edificare la propria carriera, abbia in realtà sempre risposto ad un preciso disegno filosofico, vivo e pulsante fin dagli albori, e sempre indissolubilmente legato all’amore incondizionato per pensatori come Nietzsche e Crowley, che, di conseguenza, pone in una luce del tutto differente anche la sua presunta “milizia satanica”.
Come normale aspettarsi da una pubblicazione di questo tipo, non mancano certo dettagliatissime incursioni sul making of dei dischi dei Marilyn Manson, attraverso i quali si scopre, se mai ce ne fosse stato bisogno, la pignoleria e la professionalità con le quali sono stati generati capolavori come “Antichrist Superstar” o “Mechanical Animals”, come ogni singolo aspetto di questi dischi sia stato sottoposto dal Reverendo ad un processo di definizione a dir poco certosino. Non mancano poi -sono anzi continue, data anche la “natura” del soggetto in argomento- le digressioni sul rapporto tra Manson e il mondo dello stravizio che regaleranno non poche sorprese a chi, da sempre, lo crede un semplice abusatore di sostanze alcoliche e psicotrope. E, altrettanto ovviamente, non mancano le cronache degli “incontri speciali” di Manson, a partire da quello con il fondatore della Chiesa di Satana Anton Lavey, o con la pornostar Jenna Jameson, o con tanti attori e protagonisti del jet set artistico mondiale e americano in particolare.
Questo “Marilyn Manson. Il rock è morto” è, insomma, un titolo studiato e ragionato in ogni singolo aspetto, in cui non si fa facile apologia di un altrettanto “facile” protagonista, né ci si concentra sulle ovvie capacità di attrazione di un personaggio fuori dalle righe. Al contrario, si consegna al lettore, più o meno appassionato di Manson, più o meno addentro al mondo del rock, una biografia ricca di spunti di riflessione e suggestione che è un ottimo esempio di bella editoria musicale (e dintorni, d’accordo).
Il consiglio, al netto di quanto possa piacere o non piacere la “materia” trattata e al netto di quello che succederà nei prossimi mesi nelle aule di tribunale di competenza, è quello di procurarsene al più presto una copia non soltanto per addentrarsi nei meandri esistenziali di uno degli artisti più controversi di sempre, ma anche per cogliere certi spaccati della società contemporanea (americana in particolare) e del music business che sono stati illuminati da Rossi con responsabile disposizione di indagine.