Al centro de Il giardino dei sentieri che si biforcano, celebre racconto di Jorge Luis Borges, c’è un libro confuso, apparentemente insensato. Un libro che è un labirinto: di un evento contiene dentro di sé ogni possibile svolta, ogni ramificazione, tenta di espandersi all’infinito. Quando penso a Le ripetizioni, il primo romanzo di Giulio Mozzi in uscita oggi per Marsilio e di cui Satisfiction presenta un estratto in anteprima, mi viene in mente il libro inventato da Borges. Fortunatamente quello di Mozzi non possiede un’ambizione tanto esagerata e totale – e non è né insensato né confuso -, ma è comunque costruito, almeno in parte, su una suggestione simile, un meccanismo di moltiplicazione.
Le ripetizioni racconta la storia di Mario e delle relazioni di cui la sua vita è fatta. Parlare di una sola vita, però, è forse riduttivo. Si può affermare che Mario di vite ne ha più di una, esiste in modo diverso per ognuno dei personaggi che gli gravitano attorno. C’è Viola, la donna che forse sposerà; c’è Bianca, la donna tormentata da cui ha avuto una figlia, Agnese; c’è Santiago, il giovane che lo coinvolge in pratiche sessuali estreme; c’è il Gas (il Grande Artista Sconosciuto). E ancora altre presenze fanno capolino qui e là nel corso della narrazione.
È un uomo che si insegue dentro se stesso, Mario, entra ed esce dalle vite che lo compongono, le confonde, ci si perde. Come spesso accade con le narrazioni di Mozzi, anche qui ci si muove in bilico tra dolcezza e orrore, tra la ricerca di un’idea di salvezza e la tentazione del Male.
Il racconto si regge su un montaggio che queste storie le intreccia, delle volte le ripete variandole, lasciando il lettore indeciso su quale prendere per vera e quale dire semplicemente immaginata. Mozzi ha costruito una macchina narrativa estremamente complessa ma di altissima leggibilità. Pur trattandosi di un romanzo privo di attributi “romanzeschi” (nessuna avventura, nessun grande rivolgimento di trama, nessun colpo di scena), lo percorre una tensione che non si esaurisce mai, che tira via le pagine una dietro l’altra. Si legge, come si usa dire, d’un fiato.
Nell’arco di una carriera quasi trentennale, Giulio Mozzi ha scritto e pubblicato una gran quantità di libri: raccolte di racconti, libri di poesia, saggi di didattica della scrittura. Mancava giusto un romanzo e adesso, finalmente, lo ha scritto. Le ripetizioni è un’opera importante, una di quelle che resteranno.
Edoardo Zambelli
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Di seguito l’estratto in anteprima
La storia di don Chisciotte (La storia di Viola, 2)
Mario non ricorda i sogni. Quando si sveglia, al mattino, spesso presto – non ha bisogno della sveglia –, gli sembra di avere la testa piena di cose sognate; ma nel giro di qualche secondo, il tempo di fare i pochi passi dal letto al bagno, dimentica tutto. Sa di aver sognato, ma non è capace di ricordare nulla. A tratti mette in atto degli stratagemmi: tenere un quadernetto sul comodino; raccontare appena aperti gli occhi il sogno a Viola, quando Viola dorme con lui, o raccontarlo a sé stesso, ad alta voce, quando dorme da solo, prima ancora di sollevare la testa dal cuscino; accendere appena sveglio un miniregistratore, di quelli da interviste che usa talvolta per il suo lavoro. Nessun sistema funziona. Aperto il quadernetto, la pagina bianca gli sbianca la mente; subito dopo aver raccontato il sogno a Viola o a sé stesso, o ancora prima di aver finito di raccontarlo, già la memoria è vuota; quando preme i tasti play + rec sul miniregistratore è come se premesse uno stop / eject nella testa: e il sogno si disperde nell’aria viziata e tiepida della camera da letto, per non tornare più. Mario però ha fiducia. Sa che nelle favole, quando il protagonista vive un’avventura meravigliosa e poi si risveglia nel proprio letto, rendendosi conto di aver sognato, spesso c’è un oggetto che per così dire si travasa dal mondo del sogno al mondo da sveglio: il più delle volte un monile, un anello, una collanina d’oro; a volte un acciarino o un bastone da viaggio. E lui, a volte, ha l’impressione che, dal mondo dei sogni al mondo da sveglio, il travaso possa davvero compiersi. Ad esempio, si sveglia con la mano destra contratta e arrossata: come se nel sogno fosse stato un paladino, e avesse dato di spada a destra e a manca. Oppure si sveglia con gli occhi pieni di crosticine: come se nel sogno avesse pianto. A volte si accorge, facendo la doccia, di avere delle ecchimosi sul corpo, o dei graffi sui polpacci, come se avesse dovuto combattere o se avesse camminato a lungo nella savana disseccata. Mario considera questi segni sul suo corpo – o del suo corpo – come le collanine e gli acciarini delle favole: oggetti travasati dal mondo del sogno al mondo da sveglio. Perciò li ha molto cari, li ama intensamente, ne è molto contento. Il giorno prima di quello in cui partirà per Roma Mario si sveglia con in bocca la coda di un’upupa. Apre gli occhi – ha dormito steso sul dorso – ma prima ancora di averli aperti già sente di avere qualcosa in bocca; apre gli occhi e vede, con la miopia del primissimo risveglio, qualcosa sul petto; mette a fuoco, riconosce di avere sul petto un uccello, si rende conto che in bocca ha le penne della coda. Apre la bocca, scosta il viso. L’uccello zampetta sul petto, sbatte le ali, s’invola. Sparito. In bocca a Mario resta uno strano sapore, non sgradevole; il sapore delle penne; un sapore leggermente dolciastro, come di medicina. Nel pomeriggio fa un salto alla libreria universitaria, consulta qualche manuale di ornitologia, riconosce l’uccello: un’upupa. Lo riconosce dalla crestina, soprattutto. A casa guarda nella vecchia enciclopedia Vallardi: trova upupa tra upton, charles barnes, filosofo inglese, e ur, antichissima città mesopotamica; gli piace la descrizione, insieme letteraria e meticolosamente precisa: «Le u. hanno becco sottile, lungo e incurvato a sciabola, piumaggio elegante color cannella, con vistoso ciuffo erettile sul capo. Il loro volo è leggero, a scatti, e ricorda quello delle farfalle.» Nel Dizionario nomenclatore di Palmiro Premoli, del 1919 – ne possiede una copia che è stata del nonno materno, tutta ingiallita ma dalla legatura ancora solida – trova invece upupa tra uovo e uragano; legge: «Uccello tenuirostre, grosso come una tortora, con penne sul capo erigibili come una cresta»; scopre che il suo verso si dice urlare o chiurlare – sempre con la u –; e tra i vari nomi popolari dell’upupa, «augello dei sepolcri» è quello che gli piace di meno; quello che gli piace di più, «galletto di maggio». Due notti prima di partire per Roma sogna molto. Sogna sé stesso. Si vede come dall’esterno – guarda sé stesso come se sé stesso fosse un altro, come succede appunto nei sogni. Vede sé stesso tre volte: in una stanza bianca, senza finestre e senza porte, c’è sé stesso tre volte. In piedi, immobile, gli occhi chiusi – non come uno che li tiene chiusi apposta, ma come uno che dorme; sia pure in piedi –; nudo, tutta la pelle scoperta, senza peli né capelli; la testa leggermente all’indietro, la bocca chiusa senza sforzo. Mario vede sé stesso di fronte, di fronte a sé; dal lato sinistro, alla propria sinistra; dalla parte della nuca, alle spalle. Bene, pensa nel sogno, ora mi vedo tutto. Desidera in quel momento di sbucciare il proprio corpo: guardarci dentro, conoscerne le parti, distinguere tessuti e vasi. Si sveglia. Va in bagno. Urina. Dimentica. È ancora notte fonda. Non gli succede quasi mai, di svegliarsi a notte fonda per urinare. Torna al letto, si riaddormenta. Sogna ancora sé stesso, ancora triplicato. Sta in fila indiana, questa volta: sé stesso, sé stesso, sé stesso. Vede, allora, che ci sono piccole differenze tra un sé stesso e l’altro. Ma allora non mi so, pensa nel sogno. Allora vede che i sé stesso sono quattro: il primo della fila, però, è una specie di telaio; una cosa fatta di filo di ferro; come certi porta-abiti che ha visti nelle sartorie, o nei quadri di de Chirico; sembra una bolla, una rete che ha la sua forma e sulla quale può essere tesa, eventualmente, la pelle. Mario vede che ciascuno dei sé stesso che ha visti per primi corrisponde esattamente al sé stesso di filo di ferro che ha visto dopo; eppure c’è qualche piccola differenza. Tocca un sé stesso, uno dei tre; gli sembra morbido, come fatto di una materia plasmabile. Ha un’emozione fortissima – non proprio paura, ma anche un po’ di paura – e si sveglia. In bocca ha un tubicino di gomma che finisce in una fiala di vetro. Nella fiala c’è un vapore bianco. Mario respira: il tubicino, la fiala e il vapore rientrano in lui. Dimentica. È giorno. Va al bagno, urina, fa la doccia, si guarda allo specchio, si sbarba con cura. Quel pomeriggio, alle cinque e mezza, è in piazza dei Signori, seduto a un tavolino. Aspetta le sette leggendo un romanzo – ha sempre un libro con sé, Mario, quando esce, nella borsa a tracolla: legge nelle attese, sull’autobus, in treno, ovunque –, il Secondo Chisciotte di Alonso Fernández de Avellaneda. De Avellaneda non esiste. Miguel de Cervantes pubblica la prima parte del suo Chisciotte nel 1605, poi si dedica ad altri progetti – a certe opere, per dirla tutta, che a lui importano moltissimo, assai più del Chisciotte, e che oggi nessuno più legge – e quasi si dimentica del suo «ingenioso hidalgo». Ma la prima parte del Chisciotte ha un successo strepitoso, e l’attesa per la seconda è tanta, così tanta che qualcuno – a tutt’oggi non si sa chi, tra gli studiosi c’è chi dice Lope de Vega, chi Tirso de Molina, chi de Quevedo, chi addirittura ipotizza un lavoro a più mani: sempre nomi importanti, comunque – si prende la briga di scrivere – pratica abbastanza diffusa, va detto, a quei tempi in cui il diritto d’autore e la proprietà intellettuale sono concetti sconosciuti – un proprio Secondo Chisciotte, nascondendosi appunto sotto lo pseudonimo di Alonso Fernández de Avellaneda.
Il Secondo Chisciotte di de Avellaneda esce nel 1614, Cervantes si arrabbia moltissimo, si mette di buzzo buono, e pubblica l’anno successivo il suo “vero” Secondo Chisciotte. Nel quale, per l’esattezza al capitolo cinquantanove, lo stesso don Chisciotte – il personaggio, non il libro – si trova tra le mani il libro del de Avellaneda, lo sfoglia appena – non volendo dare all’autore, «se mai gli arrivasse agli orecchi che egli l’avesse avuto fra le mani, la soddisfazione che egli l’avesse letto» – e, capitatagli sott’occhio una pagina ove si racconta di un suo viaggio a Saragozza per partecipare a un torneo, viaggio che egli sta effettivamente compiendo, decide senz’altro di cambiare meta, e dirigersi invece a Barcellona. Così, genialmente, il Secondo Chisciotte di Avellaneda è smentito e dichiarato mentitore, e per così dire espulso dalla realtà, dallo stesso don Chisciotte. Alle sette arriva Viola. Mangiano una pizza. Verso le nove si alza un venticello fresco. I camerieri srotolano il tendone a righe bianche e rosse appena in tempo, prima che cominci a piovere. Piove poco, dieci minuti. Mario e Viola vanno a casa di Mario. A casa, Viola va in bagno per prima; ci resta a lungo, come suo solito, Mario fa poi una doccia veloce; quando entra in camera, avvolto nell’asciugamano, trova Viola nuda sotto il lenzuolo. Sono stanchi, si addormentano di colpo. Mario si sveglia dopo un’ora, un’ora e mezza, si muove un poco nel letto, Viola apre gli occhi, li richiude, si stringe a Mario, solletica il suo sesso. L’erezione di Mario è immediata. Allora Mario accarezza il sesso di Viola. Fanno l’amore così, quasi senza svegliarsi, distesi uno in fianco all’altra. Mario viene nella mano di Viola. Si riaddormentano. Quando apre gli occhi – è sabato, è un po’ più tardi del solito – Mario ha la testa piegata di lato: vede per prima cosa Viola, non addormentata ma sveglia, non distesa ma mezza seduta. La guarda, Viola gli guarda il petto, Mario sente come un taptap sul petto, appoggia il mento sul petto per guardare: sul petto trotta un cavalluccio di legno, agile, leggero, non più grande di una mano aperta: corre di qua e di là, fa dei piccoli salti. Viola cerca di afferrarlo, con delicatezza, come si farebbe con un gattino neonato, ma il cavalluccio le sfugge, balza sul viso di Mario, sul naso, sulla fronte, sparisce. Mario apre gli occhi. Viola dorme accanto a lui, appoggiata sul fianco destro, un po’ rannicchiata, dandogli le spalle. Il lenzuolo è arrotolato sul fondo del letto. Dalla finestra – le tapparelle in fessura – entra poca luce. Mario guarda Viola: la pelle morbidissima, la curva dell’anca. Viola è sottile ed elastica, non magra né abbondante. Mario osserva le regioni del suo corpo. La nuca, scoperta dalla massa di capelli non nerissimi, ricci, riversati sul cuscino. Le scapole. La colonna vertebrale, come un ascensore orizzontale. La spartizione delle natiche. L’articolazione del ginocchio. Per confezionare un vestito a Gulliver, ricorda Mario, i lillipuziani gli prendono solo la misura della circonferenza – alla radice – del pollice. Perché tre volte quella misura è la misura del polso, tre volte quella del polso è la misura del collo, tre volte la misura del collo è quella del petto. Forse non è sempre tre volte. Viola si muove, si appoggia sulla schiena. Dalla bocca socchiusa, pensa Mario, potrebbe uscire da un momento all’altro una farfalla. La gola palpitante. Le spalle. I monticelli. La pancia, come un gorgo d’acqua – ma lento, lento – sprofondante nell’ombelico. L’inguine, con il ciuffo nero. Le gambe, che da lì si allontanano. Viola si sveglia. Fanno colazione. Fette biscottate, marmellata di prugne, caffè e latte.
«Ho sognato che eravamo due alberi.»
«Io non mi ricordo i sogni. Ho sognato qualcosa, subito prima che tu ti svegliassi, e già non so cosa.»
«Io li ricordo sempre. Mi piace ricordarli.»
«Dicono che ricordare i sogni è segno di equilibrio.»
«L’hai letto su Astra?»
«Ma dai. E com’era, essere alberi?»
«Non so. Non eravamo proprio alberi.»
«Ah.»
«Sì, diciamo che… Io mi sentivo la testa, e le braccia, ma poi la testa e le braccia erano come piantati su una radice.»
«Eri piantata in terra?»
«Era una cosa abbastanza bella, perché dentro questa specie di radice scorrevano i liquidi, i fluidi, fino alla testa, e dalla testa alla terra, e io li sentivo.»
«Insomma, eri una specie di carota.»
«Scemo! Eri così anche tu, sai.»
«Me l’immagino.»
«No, non ti immagini: non era una radice come una carota, era una cosa ramificata, tutte diramazioni che si districavano, uscendo dalla testa, o dalla pancia, forse dalla pancia; e colorate, rosse, verdi; lucide, come fatte di plastica animata.»
«Di plastica animata?»
«Ma sì, i fili di plastica, quelli con il filo di ferro dentro, l’anima di ferro, che si usano per chiudere i sacchetti.»
«Ma si chiama così? Plastica animata?»
«Insomma, non mi stai a sentire. E io non ti racconto più niente.»
«Io invece ho sognato che ero don Chisciotte.»
«Menti. Stai inventando.»
«Che differenza c’è? E tu eri Dulcinea del Toboso.»
«Quale delle due? Quella reale o quella immaginaria?»
«Eri Dulcinea del Toboso, che è immaginaria ed è vera, perché nell’immaginazione di Chisciotte è reale. Aldonza Lorenzo, nell’economia del romanzo, è reale ma non è vera, perché non è reale nell’immaginazione di nessuno.»
«Dunque io cosa sono? Immaginaria o reale? Vera o non vera?»
«Se vuoi essere reale per me, devi essere immaginaria.»
Quando, più tardi, fanno l’amore – la finestra spalancata, la tapparella alzata, una leggera brezza che mitiga il caldo – Mario rilascia il suo seme dentro Viola; e immagina, nella spossatezza che segue al sesso, che il suo seme risalga il corpo di Viola, attraverso vasi e condotti, ramificati, di colori vivaci; immagina il suo seme viaggiante – liquido e colloso, traslucido – travasarsi dai condotti agli organi – vede organi a forma di fagiolo, di sacco, di spugna, di vescica; rossastri, biancastri –, incanalarsi nella cavità interna della spina dorsale, giungere fino al cervello e al cervelletto. Immagina, Mario, di essere il proprio seme: e di attraversare nel viaggio regioni notturne e anguste, regioni rutilanti di colori e luce, condotti dalle parti lisce, corridoi dalle cui pareti sporgono villi gommosi, o dal cui soffitto pendono veli o filamenti. Trapassa, Mario, nel dormiveglia, al ricordo delle visite – emozionanti, terrorizzanti, magnifiche – alla Casa delle Streghe: alle giostre. Lui cammina, bambino, e piccole mani di neonati lo toccano nei polpacci, ragnatale gli bagnano il viso, improvvisi movimenti del pavimento o delle pareti lo squilibrano, rumori d’acqua vengono dall’alto o dal basso. Mario si sveglia. Accanto a lui non c’è più Viola. Nel vuoto del letto – ma l’impronta del corpo c’è ancora – un batuffolo, due piume color cannella, portate dal vento leggero che entra dalla finestra. Il rumore della doccia dal bagno. Quando Viola, avvolta nell’asciugamano, entra nella camera da letto, Mario si alza e la abbraccia. Sente l’odore del sapone, l’odore della pelle. Le scioglie l’asciugamano, lasciandolo cadere. Appoggia il suo corpo sul corpo di Viola, la fronte sulla fronte di Viola. In quel momento ricorda tutti i sogni della propria vita, tutti insieme, ed è felice. Viola, ridiventata uccello, rizza il ciuffo e vola via per la finestra aperta.
© Marsilio
14/01/2021