Il fatto è che questa avrebbe dovuto essere una recensione ma non è una recensione vera e propria. È
piuttosto un gioco ma, riprendendo quanto è scritto all’inizio di questo libro, «un gioco abbastanza serio». Il fatto è che io non riesco a restare indifferente rispetto a quello che Giulio Mozzi fa e scrive, perché io ritengo che Giulio Mozzi sia un punto di riferimento imprenscindibile per chi oggi voglia scrivere. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, lo sa. Il fatto è che potrebbe sembrare che ci siano tanti Giulio Mozzi – lo scrittore, il curatore di collane editoriali, l’ideatore di Vibrisse Bollettino e della Bottega di narrazione, il compilatore di (non) corsi, ricettari, oracoli di scrittura creativa – quando invece Giulio Mozzi è uno e uno soltanto.
Il fatto è che quando qualche mese fa è uscito Oracolo manuale per scrittrici e scrittori (Sonzogno, 432 pp., € 16,00) e io, seguendo le indicazioni, l’ho aperto a caso – anche se non in un momento di blocco creativo ma, appunto, per gioco o per mettermi alla prova, mettere alla prova la mia scrittura e l’efficacia del manuale – il primo suggerimento in cui mi sono imbattuto è stato: «Non chiamare X il tuo protagonista». Sono saltato sulla sedia. E il perché io sia saltato sulla sedia è presto detto: sono saltato sulla sedia perché quel suggerimento sembrava pensato apposta per me che ho scritto una costellazione di storie in cui uno dei protagonisti si chiama X. Ma non è finita qui: sulla pagina di sinistra dell’Oracolo, accanto alla frase che sopra ho riportato, è scritto questo approfondimento: «E neanche Y, per piacere. Al massimo Q, ma devi essere proprio bravo». Ecco, il fatto è che nella mia costellazione di storie, oltre a X, ci sono personaggi i cui nomi sono Y e Q.
Seriamente, il fatto – questo pezzo è pieno di “fatti”, lo so: così come l’Oracolo è pieno di cactus (illustrati
da Lise & Talami) «perché scrivere, si sa, è una questione spinosa» – sul quale voglio qui porre l’attenzione è che l’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori è davvero un libro magico. Esso infatti ci parla e assolve alla sua funzione. Pensato alla maniera del mazzo di carte Oblique Strategies, Strategie Oblique, inventate da Brian Eno e da Peter Schmidt nel 1975 come strumento per aggirare il blocco creativo di artisti e musicisti, l’Oracolo, come recita il sottotitolo, è un «metodo rapido ed efficace per la risoluzione di ogni problema narrativo e di scrittura, particolarmente adatto ai principianti ma non privo di utilità anche per gli esperti». Prima di usufruirne, però, vanno lette le prime pagine che sono l’equivalente del bugiardino di un farmaco o del foglietto delle regole di un gioco da tavola, e in cui si spiega per bene cos’è questo libro, perché si chiama come si chiama, a chi si rivolge, in quanti modi si può utilizzare, come si può incrementare, da dove trae origine e lo scopo che si propone, ovvero l’obiettivo. Che potrebbe essere semplificato così: affondare tutta la flotta nemica che ti attacca nel momento in cui stai scrivendo «un romanzo, un racconto, un poema in ottave, una sceneggiatura, un copione teatrale – e ti trovi in un momento di difficoltà perché non sai come far andare avanti la faccenda, o perché la scrittura non ti soddisfa, o perché la trama o il montaggio delle scene ti sembrano troppo semplici o inutilmente complicati eccetera». È in questo momento, proprio quando temi di non farcela, di poter affondare e la pagina bianca ti terrorizza come un mare aperto nell’ignoto e sul cui orizzonte si profilano le navi da guerra da te stesso armate contro di te, che puoi prendere in mano l’Oracolo e aprirlo a caso.
Ho usato la metafora del mare, della battaglia navale, perché il gioco che questo libro presuppone ha a che fare, a mio giudizio, con una sospensione. Per battaglia navale non intendo una battaglia vera, a colpi di siluri e mitragliatrici e bombe. In mare aperto, qui, ci siamo solo noi e la strategia che abbiamo approntato – stiamo approntando – e ci sono dei momenti in cui tutto si ferma e quello che allora dobbiamo fare è estraniarci, guardare come da un binocolo il mare aperto delle possibilità, concederci una pausa, distanziarci da noi stessi per cercare di capire se la nostra stessa strategia sia davvero vincente («Davanti a ogni frase che hai scritto domandati: “Che cosa vedo?”»). Lo sforzo che l’Oracolo ci richiede è, insomma, quello di guardarci dal di fuori, noi e la nostra scrittura («Immagina che a scrivere ciò che stai scrivendo sia un’altra persona»).
Può altresì accadere che il consiglio in cui ci imbattiamo ci possa apparire infruttoso, come se non
c’entrasse niente con il motivo per il quale abbiamo interrogato l’Oracolo. In verità, però, qualsiasi sia il
responso che il libro ci darà, esso avrà comunque una sua efficacia perché in una narrazione – nel nostro
tentativo di costruirne una – tutto dovrebbe tenersi ed essere legato: la struttura, l’incipit, il punto di vista, da dove cominciare a raccontare («Cambia l’ordine degli eventi. Comincia a raccontare dalla fine. O dal mezzo. O, al limite, dal principio»), il lavoro sui personaggi, il nome che diamo loro (va bene anche X e Y e Q, ma questo lo dico io, e infatti qui, tra parentesi, non ho messo le virgolette o le caporali “«” e “»”), le motivazioni che li muovono e animano, le relazioni che tra loro si instaurano («I personaggi non esistono. Esistono le relazioni tra i personaggi»), i dialoghi («mentre scrivi i dialoghi, tieni d’occhio le posizioni reciproche dei personaggi»), l’azione, il lavoro sul tempo e sullo spazio, l’utilizzo degli aggettivi, il registro linguistico adottato.
L’Oracolo è zeppo di esempi pratici tratti dalla nostra tradizione letteraria (un modo per farci vedere come alcuni grandi scrittori hanno risolto le questioni fondamentali); di regole fatte per essere trasgredite; di semplici suggerimenti affinché nella nostra narrazione (che «è anche un meccanismo di attese da parte del lettore») le cose non procedano scontate («Fa’ che tutto vada male», «Deludi le aspettative scontate. Però ricordati di suscitarle»); di inviti a riflettere sul senso del raccontare e del vivere («Ogni storia dev’essere un enigma», «Solo accettando che le nostre vite nel mondo non hanno alcun senso – condizione nella quale ci troviamo da quando le Grandi Narrazioni che reggevano l’Occidente si sono sfaldate – possiamo accettare che le vite dei personaggi nelle narrazioni abbiano senso, eventualmente molti sensi. Raccontare serve prima di tutto a consolare dell’insensatezza»); di esortazioni a non demordere (come fossero pacche sulle spalle: «Avanti! Avanti!»), perché la pagina bianca e, in generale, tutto ciò che produce frustrazione può essere vissuto come momento di passaggio, come soglia verso la produttività; di inviti a prendersi il tempo necessario a uscire da una impasse («Esita, indugia»).
Ma l’Oracolo è anche pieno di trappole, giacché possiamo imbatterci in suggerimenti che si contraddicono l’uno con l’altro, non esistendo per fortuna in letteratura leggi o regole certe. Ma non solo, perché l’Oracolo è anche uno strumento beffardo (tra l’altro va notato come sia stato scritto attenendosi agli stessi consigli che suggerisce, e questo nonostante non sia un romanzo ma il tentativo di narrarne per arbitrio – ogni narrazione è un arbitrio – e per sottrazione il suo farsi): lo apriamo a caso in un momento in cui abbiamo bisogno di una spinta per risolvere uno specifico dilemma ed ecco che ciò che leggiamo getta un’ombra su tutto quanto abbiamo scritto finora, («Indietro tutta»). Come fosse un monito, la frase che ci è capitata ci costringe a rimettere mano a tutta la storia, addirittura a partire dall’idea dalla quale era scaturita e che ci era parsa geniale e che invece adesso noi vediamo per ciò che è in realtà: un’idea senza né capo né coda, niente, zero. Volevamo imitare il mondo e invece Giulio Mozzi, giustamente, ci ricorda che «le narrazioni non imitano il mondo: lo inventano». Perché le narrazioni sono illusioni. «“Illudere” viene dal latino “in-ludere”, “chiamare dentro a un gioco” (da “ludere” viene anche il termine italiano “ludico”). Devi chiamare il lettore nel gioco, giocare per lui e con lui. È come il lavoro degli scienziati: svolgono le loro ricerche, fanno ipotesi, lavorano per verificarle o falsificarle, costruiscono teorie eccetera, sempre come se il mondo, nel suo complesso, avesse un’unità di funzionamento, una coerenza, dei meccanismi di base che agiscono similmente in ogni luogo, tempo e situazione. Se non si partecipa a questo “come se”, che in fin dei conti è una sorta di illusione, non si può fare scienza. Una narrazione che non abbia la forza di imporre il proprio “come se” è una narrazione che non produrrà mai nel lettore una vera e completa illusione. E lo perderà, non importa se a pagina sette o a pagina trecentoventicinque».
In conclusione, e sempre che ci sia una conclusione, perché «non sempre la fine della storia e la fine della
narrazione coincidono» (e questo forse vale anche per le recensioni, la loro fine, sempre che questa sia una recensione) tutti quanti dovremmo avere con noi l’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori. Anche se non siamo scrittrici e scrittori e non aspiriamo a diventarlo, non di altre storie, almeno, o di altri romanzi, bensì solo di quella lunga storia o romanzo che è la nostra vita. Perché l’Oracolo questo in sostanza ci vuol dire: chi siamo o chi crediamo di essere e dove stiamo andando e con chi e se non è forse meglio fare qualche aggiustamento per migliorare la nostra esistenza.
Gianluca Minotti