Il figlio di Maria Annunziata morì all’età di quattro anni. Maria Annunziata si era sposata a diciannove anni, incinta, con un uomo che era stato il primo uomo della sua vita e che lei aveva desiderato subito che fosse l’unico, per sempre.
Ne La felicità terrena (Einaudi, 1996), la seconda raccolta di racconti pubblicata da Giulio Mozzi, c’è un racconto intitolato Il bambino morto.
Quando l’ho letto la prima volta, una decina d’anni fa ormai, ho pensato: Ma come ha fatto? Mi era sembrato un racconto bellissimo, di una bellezza insieme semplice e disturbante, e volevo capire meglio. L’ho riletto, subito.
La storia, molto in breve, è questa: una donna, si chiama Maria Annunziata, mette al mondo un bambino, il bambino dopo qualche tempo muore, la donna continua a vivere come se il bambino non fosse mai morto. Gli parla, gli prepara il pranzo e la cena, lo porta a scuola e via così. È ovviamente il racconto di un lutto, di una mente sconvolta dal dolore.
Per far vedere questa cosa al lettore, per mostrare cioè il passaggio dalla realtà all’allucinazione (non sono sicuro che sia il modo giusto per dirlo, ma meglio non mi viene), Giulio Mozzi fa una cosa di una semplicità sconcertante: dà un nome al bambino. Mi spiego. Finché il bambino è vivo, nel testo viene sempre chiamato “il bambino”; quando muore, e da lì in poi, viene chiamato “Michele”. Su questa sostituzione minima si regge tutta la seconda metà del racconto.
Lo spostamento semantico produce un cambiamento anche emotivo, una modifica del punto di vista. Si passa dal generico “bambino” (una visione sul racconto quasi dall’esterno, mi viene da dire: lontana) al privato “Michele”, nome proprio, quindi a una dimensione più intima. Il sospetto è allora che si sia entrati, nel giro quasi impercettibile di una frase, dentro la testa di Maria Annunziata: improvvisamente il lettore vede le cose come lei le vede.
Quando ho capito come ha fatto, di domanda ne è spuntata un’altra: Cosa ha fatto? Mi sono risposto: Ha dato un nome al dolore. È una considerazione che vuol dire poco o nulla, me ne rendo conto. Ha un senso per me, non so se possa averne per altri.
Nella mia testa, quella frase comprende due cose: la prima è, per così dire, la potenza emotiva del racconto, il suo contenuto; la seconda è la sapienza tecnica che c’è dentro, quella piccola intuizione che lo fa andare, lo rende quello che è. Mi ricorda, ogni volta che ci penso, che un racconto – o un romanzo, ma più in generale una narrazione – è fatto non soltanto di cose che accadono, ma anche di meccanismi più o meno evidenti, di strategie, di viti che si allentano e si stringono.
Mi pare di poter dire che quello che c’è in questo racconto – o che io ho visto in questo racconto – sia rintracciabile in tutta l’opera di Mozzi. Da una parte la perizia tecnica, e in questo includo anche la prosa, l’uso di una lingua disadorna ed essenziale, in apparenza facile, eppure di una complessità e bellezza accecanti. Dall’altra la capacità di andare a guardare nei posti più bui e spaventosi senza risparmiarsi. Non si tratta soltanto di parlare di cose disturbanti, si tratta di farlo sporcandosi le mani, guardando da una distanza tanto breve da farsi male (e far male al lettore).
Conosco Giulio Mozzi da diversi anni e fare della sua antologia una recensione neutra, fingere un distacco, mi sarebbe sembrata, da parte mia, una cosa un po’ disonesta. Ho preferito quindi provare a fare una cosa diversa: spiegare dove ho trovato bellezza nelle cose che ha scritto. Anzi, in una delle cose che ha scritto (di cose per fortuna ne ha scritte tante e di bellezza, nei suoi libri, ce n’è dappertutto). Se ci sono riuscito non lo so, spero di sì.
I racconti scelti per Un mucchio di bugie ne coprono l’intera produzione, dal primo libro pubblicato, Questo è il giardino, fino a Favole del morire e Fiction 2.0. Lo chiude una nota finale scritta dalla brava Gilda Policastro.
Ho iniziato con due domande intorno a un suo racconto. Chiudo con una terza domanda, più generale: Perché leggere Giulio Mozzi? Perché tra le tante cose che sa fare, Giulio Mozzi sa dare un nome al dolore.
Edoardo Zambelli
Recensione al libro Un mucchio di bugie. Racconti scelti 1993-2017, di Giulio Mozzi, Laurana 2020, pagg. 344, € 18