Far discendere nuovamente sulla terra Dante Alighieri è lavoro da poeti. Dante Alighieri torna sulla terra, infatti, da seicentonovantanove anni una sola notte all’anno, direttamente dal Paradiso grazie a Giuseppe Conte, autore di questo Dante in love, suo secondo romanzo in uscita da Giunti. È quella che potrebbe essere definita una “storia di fantasmi”, che ha per protagonista l’autore della Divina Commedia che, per concessione divina, può tornare a Firenze, non per premio, ma per scontare l’amore eccessivo nutrito in vita per la poesia e per la bellezza di questo mondo. Lo sguardo dell’Alighieri, dunque, sfiora e accarezza la città, l’amato Battistero, per poi soffermarsi sulle donne che percorrono le sue strade, per scegliere e catalogare le sessanta più belle. Ogni anno si rinnova la discesa sulla terra, e alla settecentesima volta, Dante di rende conto che una studentessa di nome Grace, per la prima volta, sembrerebbe avvertire la sua presenza. È a partire da questo “incontro” che il racconto imbocca con decisione un percorso improntato all’ironia: Dante segue la ragazza, e prende a raccontarle il suo amore per Beatrice, la sua adesione ai Fedeli d’Amore – la cui missione era quella di perpetuare la Tradizione dando vita a gruppi di iniziati – di cui era stato cantore, fino a invitare la ragazza a intraprendere con lui un viaggio d’amore. La nuova svolta si verifica nel momento in cui Grace bacia un ritratto del poeta, e una fantasmatica e spaventata Firenze come ai tempi della peste fa da sfondo a un serrato gioco di equivoci, in cui campeggia infine l’ “apparizione” di Dante allo stesso autore del libro, presente in coda di romanzo come lo fu il pittore Velasquez nel suo Las meninas.
Con la grazia della sua scrittura poetica e al contempo estremamente concreta, Giuseppe Conte mette a confronto lo spirito e la vita dei tempi di Dante con i nostri giorni, che hanno perduto quell’ “anima” che seppe un tempo vivificare storia, arte e pensiero. È un presente svuotato di tensioni, di progettualità, di svuotamento che colpisce anche chi dovrebbe, più di tutti, utilizzare la memoria del passato per immaginare un grande futuro. Ma il Dante-Conte ci mette in guardia anche dal fatale impoverimento della nostra lingua, al desolante naufragare di uno straordinario patrimonio che testimonia in pieno la povertà dei tempi.
Paolo Melissi
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Dov’è finita la mia bella lingua del sì, la lingua d’oc, il provenzale di Arnaut Daniel, Bertrand de Born, Bernart de Ventadorn, il latino, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio… ora neppure più quello della Messa, degli Agnus Dei, degli Osanna in excelsis Deo si sente risuonare in Duomo. Non vale niente rimpiangere. E per un’ombra ancora meno.
Posso capirvi, ma certe parole che sento usare qui intorno non so cosa siano. Non mi sembrano neppure parole. Non so se sono storpiature, giochi per divertire i bambini, forme di dialetti sgraziati, se le prendete in prestito dai linguaggi degli animali, dal canto degli uccelli che spesso un canto non è. Pensa ai gabbiani, che stridore, e pensa ai corvi e alle cornacchie, che male fanno alle orecchie appena aprono il becco.
Il linguaggio che avevo imparato ascoltandolo sulla bocca dei miei genitori, di Bella e di Alighiero, che parlavo e che ho forgiato lavorandolo in mille forme come fa un fabbro con i metalli
Ascolta i termini che girano qui intorno, usati sullo schermo di quella che chiamano televisione, sulla bocca dei poveri e su quella dei potenti. Eccoli, anche stanotte… Tuit tuit, fac fac, feis feis, buc buc, spot spot, sciot sciot, ueb ueb, tag tag, bec bec, toc toc, scio scio… Corvi, cornacchie…
(…)
Una lingua che può far parlare persino chi non ha bisogno del linguaggio, chi trasmette il proprio pensiero senza parole: gli arcangeli più vicini a Dio, dai santi nomi ben noti, e i diavoli servitori di Lucifero, una oscena masnada che ho battezzato io, se così si potesse dire, Malacoda, Alichino, Cagnazzo, Calcabrina, Rubicante, Scarmiglione, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Libicocco, Farfarello, Barbariccia…
Con questa lingua ti ho raccontato un viaggio nell’Aldilà come non aveva compiuto neppure Ulisse, neppure Enea nel poema di Virgilio, mia guida e maestro…
(…)
La donna è molto giovane, indossa un paio di pantaloni avorio e una lunga camicia rosso scuro, che le arriva sin quasi al ginocchio. Non ha orecchini né collane. Porta al collo una sciarpa di stoffa più leggera della seta, che è come se fosse stata macchiata di rosso, di azzurro, di marrone, di avorio. Si muove con sicurezza, ha piedi piccoli che dentro i mocassini sembrano appena sfiorare il suolo. Sta fotografando il Battistero. Ad ogni scatto, l’apparecchio che ha in mano emette un brillio acuto e abbagliante. Ha un’aria assorta mentre sceglie i punti di vista per le inquadrature. Si allontana, si avvicina, si scosta di qualche passo ancora, ora a destra, ora a sinistra. Chissà cosa provano gli uomini a fotografare con tanta frequenza… Io credo che la loro vista si sia indebolita, così facendo, e anche la loro presa sulla realtà si sia attenuata, se preferiscono guardarla riprodotta su uno schermo, ridotta a un cumulo di fantasmi.
© Giunti
20/01/2021