La riforma di Giovanni Gentile è stata, nell’opinione di Giuseppe Valditara, la più importante riforma scolastica del ‘900 italiano. La sua influenza culturale ha lasciato una traccia significativa nella società e nella scuola italiana e, in qualche misura, persiste ancora, in particolare nella concezione piramidale del percorso formativo, che ha posto al vertice il liceo classico, originariamente destinato a formare le élite del Paese, creare un sentimento di favore per la formazione liceale nel suo complesso, e una sottovalutazione dello studio delle materie scientifiche, nonché la svalutazione sociale della formazione tecnico-professionale.
Secondo uno schema neoidealistico, Gentile riteneva che la vera formazione fosse soltanto quella umanistica. Valditara sottolinea come una impostazione siffatta fosse del resto funzionale a una società ancora prevalentemente agricola con un’alta percentuale di braccianti e con un’industria che non richiedeva nelle masse operaie una diffusa specializzazione. Saper leggere e scrivere, per le masse, era allora ritenuto sufficiente. Fondamentale invece era la formazione umanistica per le élite dal momento che forniva visione strategia e un tessuto valoriale coerente e funzionale a una guida sociale alta. È evidente come la promozione della persona umana non fosse l’obiettivo di una scuola che doveva invece essere adeguata alle superiori esigenze dello Stato.
Si trattava, quindi, di attribuire ai diversi gradi e percorsi scolastici e all’università la funzione sociale di “setacciare” progressivamente la massa degli studenti per identificare gli “eletti” della futura classe dirigente del Paese. In questo contesto il merito esprimeva un concetto elitario, riservato a pochi capaci di raggiungere risultati di eccellenza oggettiva. L’autore ritiene che Gentile fosse sinceramente persuaso che, in questo modo, si riuscisse a selezionare i migliori studenti, indipendentemente dalle loro condizioni economiche di partenza ma che, nella realtà, al di là dei singoli casi, la regola generale era che il successo nello scalare le gerarchizzazioni scolastiche e universitarie coincideva con le condizioni socio-economiche di partenza più o meno privilegiate.
Nell’analisi di Valditara, l’idea di scuola gentiliana ebbe un influsso non marginale sulle stesse posizioni comuniste. Proprio Gramsci affermava invero che senza la concezione umanistica e storica in particolare, si rimane specialista e non si diventa dirigente. Ritorna quindi l’idea di un modello aristocratico pur se orientato al riscatto della classe operaia. Sarà il ’68 e introdurre nuove idee di scuola.
Il Maggio francese si apre con il rifiuto della riforma che intendeva collegare l’università con il mondo del lavoro. L’avversione verso il ruolo formativo del lavoro è netta, così come verso un’istruzione che non si fondi sulla unitarietà del sapere. È questo il modello di scuola che spalanca le porte al superamento della scuola meritocratica, dell’impegno e della competizione, in favore del mito del 6 politico e degli esami di gruppo, in cui il valore individuale evapora. Per l’autore, il ’68 ha avuto soprattutto il merito di scardinare il sistema elitario della scuola gentiliana – basti pensare all’accesso a tutte le facoltà universitarie reso possibile con qualsiasi tipo di diploma – ponendo la questione di una scuola di massa.
Il modello di società che avevano in mente i nostri costituenti non era diverso da quello che caratterizzava la scuola gentiliana. Ottant’anni fa l’economia era prevalentemente agricola, la maggior parte della popolazione viveva nelle campagne o nei piccoli centri. I figli delle famiglie di modeste condizioni economiche a 13 anni già lavoravano nei campi, l’educazione liceale era costosa, i licei pochi e tutti concentrati nelle città, i mezzi di comunicazione non agevolavano la rapidità e la frequenza dei trasferimenti. Oggi la società è radicalmente mutata. La popolazione è prevalentemente inurbata. Il lavoro nei campi si è fortemente meccanizzato, persino automatizzato, e ha visto una manodopera sempre più straniera, le scuole superiori si sono moltiplicate e sono, salvo alcune eccezioni, a non molta distanza da casa, la rete dei mezzi pubblici è cresciuta, anche se con alcuni non marginali disservizi soprattutto in alcune zone del Mezzogiorno e delle isole.
Su circa 7,2 milioni di studenti iscritti per l’anno scolastico in corso, sono poco oltre 2,6 milioni i ragazzi che frequentano la secondaria di II grado: 51,4% nei licei, 31,7% in istituti tecnici e 16,9% ai professionali (Dati Miur).
Basandosi sui dati di una recente ricerca Invalsi, Valditara afferma che oggi il percorso scolastico dei meritevoli non è più condizionato in modo significativo dalle condizioni economiche e sociali. Per quanto ciò può essere veritiero permane, comunque, nel nostro Paese il problema diffuso della «povertà educativa», ovvero la privazione dell’opportunità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni.
È di tutta evidenza che se intendessimo per merito, come era nella concezione gentiliana, il raggiungimento di traguardi di eccellenza oggettivi, di fatto raggiungibili da pochi eletti, compiremmo, secondo l’autore, una operazione aristocratica, elitaria, che non serve ai problemi della scuola italiana. Merito va invece inteso partendo dal presupposto costituzionale di una scuola aperta a tutti, che sappia valorizzare qualunque persona e rimuovere gli ostacoli che ne consentano una piena valorizzazione. Merito è dunque il raggiungimento del meglio che ciascuno, con impegno e responsabilità, può dare.
La scuola del merito deve saper svolgere un’azione maieutica, che sappia tirar fuori il meglio che ogni giovane possiede dentro di sé, lo sappia valorizzare e lo sappia orientare verso le scelte formative future il più possibile coerenti con le sue potenzialità, per la piena realizzazione della persona anche nella prospettiva di un soddisfacente inserimento nel mondo del lavoro.
La scuola costituzionale è, dunque, quella che costruisce una formazione personalizzata, come un abito sartoriale fatto su misura, una scuola in cui il progetto e il percorso formativo tengano conto delle inclinazioni, delle potenzialità e delle problematicità di ogni studente, con lo scopo di valorizzare il meglio che ciascuno ha in sé.
Il governo sta studiando un piano di riduzione a 4 anni dell’istruzione secondaria. Non un mero accorciamento del percorso con gli stessi programmi quinquennali compressi in un quadriennio, ma di programmi nuovi, diversi, concepiti appositamente. Un ripensamento della filiera tecnico-professionale per collegarla sempre più con il mondo del lavoro. Un percorso collegato, volendo, con 2 anni d’istruzione terziaria in un Its (Istruzione tecnologia superiore).
Percorsi di studio con lo sguardo rivolto al mondo.
Molte imprese italiane hanno delocalizzato la produzione ma non trovano maestranze adeguatamente formate in loco. Sarebbero pronte a investire risorse se il sistema scolastico italiano dovesse aprire scuole capaci di supportare le loro esigenze produttive.
Valditara ritiene la cooperazione e l’istruzione gli strumenti migliori per affrontare le sfide dello sviluppo. In Italia e fuori da essa.
Progetti di sviluppo di un’istruzione congiunta rientrano nel Piano Mattei che il governo ha strutturato per l’Etiopia. Inoltre, fin dal momento della progettazione della riforma dell’istruzione tecnica e professionale è risultato decisivo per gli attori il contributo di regioni ed enti locali per la strutturazione di una offerta formativa capace di esaltare le potenzialità e di rispondere alle necessità dei territori.
Irma Loredana Galgano
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Giuseppe Valditara, La scuola dei talenti, Piemme, Milano, 2024