Nei Nove saggi danteschi Borges scrisse che “innamorarsi significa crearsi una religione il cui Dio è fallibile.” Il suo riferimento era dichiaratamente l’abnegazione che Dante aveva per Beatrice, da cui accettava anche di essere ignorato e respinto, addirittura dileggiato e disprezzato, tanto forte era la sua dedizione. Quella di Dante per Beatrice era “un’adorazione idolatrica” che come con una panacea Dante risolve in un incontro immaginario oltre che illusorio, copula “di quella felicità che non ottenne” (Borges, “L’incontro in un sogno,” in Nove saggi danteschi). Lo stesso innamoramento, o meglio le medesime dinamiche apparentemente perverse, possono essere rintracciate nell’impegno religioso. Chi crede finisce per amare il suo dio (amore è una parola chiave un po’ in tutte le religioni, soprattutto nella tradizione cattolica), anche se quel dio poi disattende sistematicamente pulsioni, necessità e suppliche dell’amante. Queste dinamiche sono quelle che Reese Okyong Kwon disseziona su The Incendiaries (da noi Gli incendiari, trad. it. di Giulia Boringhieri, Einaudi). Libro in parte autobiografico, se non per trama almeno per temi, visto che la stessa R. O. Kwon è stata prima cattolica e poi rinata atea: ha avuto quell’innamoramento per un Dio incomprensibile e quindi fallibile, e ha esperito il fallimento personale del distacco da quel miraggio.
Gli incendiari inizia dalla fine, e già dal titolo si capisce cosa si racconterà: una fazione religiosa scivolata nel fanatismo sarà artefice di un attentato a una clinica in cui si pratica l’aborto, perché si sa, o loro sanno, che la vita appartiene a Dio. A una trama esile e per certi versi banale (cosa di più banale di una setta religiosa che diventa fanatica cellula para-terrorista e incendia una clinica abortista?) fa da contrappunto un’originalità nella struttura del romanzo e una triplice introspezione diretta ai tre protagonisti della storia, che sono anche tre diversi modi di approcciare il fenomeno religioso.
Organizzato in capitoli brevi, scritti in uno stile essenziale, lirico e ellittico, quasi sincopato, la trama si stende su una polifonia a tre voci che si alternano con precisione quasi ritmica. Tutto avviene in un prestigio college finzionale, l’Edwards, nella città finzionale di Noxhurst, dove Will Kendall e Phoebe Lin si conoscono e iniziano una relazione mentre al contempo rimangono coinvolti, in modi diversi, con una setta religiosa, in una dinamica che può ricordare quella di Players di Don DeLillo.
La linea melodica, quella che ha maggior spazio, è quella di Will Kendall, ex cattolico, trasferitosi a Noxhurst da un college cristiano—Il Jubilee in California—e che, dopo aver abbbandonato le velleità religiose della sua tarda adolescenza e aver dovuto “give up the long-held plan to assign [his] life to God,” si dedica a studi di economia; l’armonia, la parte eseguita dalla mano sinistra di un pianista, è Phoebe Haejin Lin, che fa il percorso inverso di Will, e dopo un lutto di cui si sente responsabile inizia a avvicinarsi alla setta religiosa di John Leal, che a sua volta è il controcanto periodico del libro, il reietto reinventatosi profeta, fondatore e leader dei Jejah (letteralmente “discepolo” in coreano), setta religiosa al centro della storia. Quelli dedicati a John Leal sono capitolo brevissimi, spesso non arrivano a riempire una pagina, e sono pieni di accenni, pettegolezzi, storie di seconda o terza mano. Pare sia stato studente alla Edwards e poi sospeso o addirittura espulso. Pare sia stato in Corea del Nord a aiutare i profughi a rifugiarsi in Corea del Sud, e pare sia stato poi catturato e imprigionato in un gulag, dove rimane sorpreso da come i prigionieri avessero sviluppato una perversa fedeltà nei confronti del loro despota e carnefice, una specie di Dio severo e punitivo, “they talked of loving the God they’d fled,” in una specie di estrema versione della sindrome di Stoccolma. Lì Leal capisce che “some people needed leading.” Così tornato negli Stati Uniti fonda la sua setta religiosa. La sua è la personalità malata del narcisista che si vuole novello profeta, di chi manipola le menti deboli con menzogne e artifici, di chi non ha rispetto dell’individualità e della libertà altrui e si pone come una “proxied liasons” tra popolo suddito e un idolo finzionale. John Leal si è trasformato in quello di cui le persone hanno bisogno, e si è fatto a immagine e somiglianza di un profeta che promette salvazione e beatitudine, con tutti “the hocus-pocus bribe of hot bread, lavish, like God: take it, eat it,” o ancora la solita “orthodox delusion, the usa born-again cant,” per come li vedrà Will Kendall.
E proprio Will Kendal, il perno attorno al quale gira tutto il libro, per certi versi, è lo scetticismo razionale che mina alla base ogni religiosità. Will ha i capitoli più lunghi, scritti in prima persona, illuminati, razionali, è l’antropologo con il casco giallo che osserva il mondo di cui faceva parte fino a pochi anni prima, quasi inconsciamente, e che ora riesce a raccontare col distacco necessario, ma pur con un tocco di partecipazione. Si dichiara fin da subito un un ateo “perseguitato da Dio” (“God-haunted”) e racconta di come si sia avvicinato e sia rimasto incastrato nel credo religioso in tenera età, a seguito di un senso di colpa e di un bisogno di affrancamento che lo spingeva, e di come tutto sia successo un po’ come la rovina del Mike Campell di The Sun Also Rises di Heningway, “it’s gradual, then it happens all at once.” Racconta anche come tutto sia finito con la fine dell’adolescenza perché “then, because I had to, I’d grown up.” Con questo Will ammicca e ribalta due assunti biblici di San Paolo. Definendosi un ateo “perseguitato da Dio,” perché la perdita della fede viene vissuta come una specie di fallimento, di incapacità di guardare al di là della logica, ribalta il Paolo ancora di Tarso che stramazzato a terra sente la voce di Dio che gli chiedeva “perché mi perseguiti?” Dichiarando di aver poi perso la fede perché “poi, perché dovevo, sono cresciuto” ribalta il famoso passo dell’inno alla carità della Prima lettera ai Corinzi: : “cum essem parvulus loquebar ut parvulus sapiebam ut parvulus cogitabam ut parvulus quando factus sum vir evacuavi quae erant parvuli.” Paolo di Tarso da adulto abbandonava le spensieratezze del bambino per abbracciare la fede (“quando factum sum vir evacuavi quæ erant parvuli.”). Will da adulto abbandona la fede invece di abbandonare “quæ erant parvuli.”
Quelle due linee trovano si intersecano nella storia di Phoebe. Giovane studentessa alla Edwards. I suoi capitoli sono quelli più interessanti da un punto di vista stilistico: hanno tutti la forma di una specie di diario, e tutti iniziano in terza persona, con un impersonale “Phoebe said” o sue variazioni, e poi sistematicamente dopo poche righe scivolano in prima persona e entriamo, per quanto ci è possibile, per quanto ci è permesso, nella testa di Phoebe. Phoebe è il polo opposto di Will: se Will ha perso la sua fede e ora fatica a capire chi si ostina a non perderla, Phoebe sente il bisogno, un impulso a costruirsene una. Da rinata cristiana si accorge che la sua vita ha sempre avuto una forma di devozione a guidarla, sotto forma della sua dedizione quasi religiosa alla musica e allo studio del pianoforte, tanto da “forget I had an I.” Già nei suoi studi di pianoforte, quando il suo scopo era quello di diventare una specie di “Alta Sacerdotessa della Musica” (“High Priest of music”), sperimentava quell’obliterazione del proprio io che viene richiesto come biglietto di ingresso in una qualunque forma di impegno spirituale. Ma Phoebe si rendeva conto del suo fallimento “I didn’t have the talent. It wasn’t enough to be good. I could see no point in devoting this life to music if I wouldn’t add what leading pianists, the ones I idolized, had achieved.” Quello di Phoebe è sicuramente il personaggio più interessante del libro, forse proprio perché viene lasciato molto in ombra: è il mistero della religione incarnatosi in chi decide di abbracciare un credo. Dall’esterno possiamo osservarne le dinamiche, ma mai capire quali siano veramente i moventi e le leve che hanno messo in moto il meccanismo. Soprattutto quando quella fede sopravvive alle delusioni, ai fallimenti del Dio fallibile che è stato messo su un altare. Se da una parte R. O. Kwon sembra mettere il dolore e un certo senso di colpa, di responsabilità che spinge verso la religione, dall’altro sembra anche sottolineare l’inevitabile fallimento nel trovare una soluzione. Per la stessa Phoebe, “to recall those I’ve hurt, to catalog the times I’ve failed is also to learn how to forgive,” e anche nei confronti di Will, dirà, lasciarlo, abbandonarlo sarà “join the list of all those Will loves who failed him.” Torna di nuovo la religione il cui dio è fallibile di Borges, ché ogni religione è un gioco in cui capire significa perdere, essendo ogni religione un mistero incomprensibile, a voler essere cortesi, e una finzione incomprensibile a voler esser realisti.
Paolo Latini