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Gli insaziabili, Sedici racconti tra Italia e Cina

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“In questa rivoluzione, il proletariato ha perso un’anguria ma conquisterà il mondo!”
“E che mondo sarà?”
“Un mondo dove ci saranno pane e latte, maotai [un famoso liquore cinese, ndr] e sigarette
Furongwang, una casa e pure le angurie. E se così non fosse? Ci basteremo noi due insieme, per
sempre. E questo è quanto basta”.
Sono parole di Wen Zhen, scrittrice coinvolta nella raccolta “Gli insaziabili” (Nottetempo, pp. 352,
euro 16). Un progetto ambizioso dal momento che mira a mettere in contatto due culture molto
diverse, quella italiana e quella cinese, abbinando 8 racconti di scrittori italiani ad altrettanti di
scrittori cinesi. Il trait d’union o il doppio filo rosso che cuce l’operazione è quello del cibo
coniugato all’eros. Di eros, a dire la verità, si parla poco (o forse ho un differente gusto
dell’erotico?); il cibo avrebbe potuto essere più centrale, avere un ruolo più culturale, data
soprattutto la reale importanza che esso veste all’interno della società cinese. Cresciuta per strada,
tra calderoni fumanti, o nei vicoli, tra salse rosse e marroni, foglie d’erba, cipolle, baicai e cascate
di coriandolo.
Ma la Cina è sterminata, è grande, e vive diverse identità e diversi tempi all’unisono.
Che idea si faranno, di noi, in quella terra lontana, composita ed eterogenea? Che quadro ne
ricaviamo, noi, di loro?
Che poi ormai la parola Cina Cina Cina è sulla bocca di tutti. Si parla così
tanto di questa potenza mondiale, tutti vogliono fare affari con lei senza conoscerne cultura e
psicologia. Non si sa nulla di questi omini piccoli e apparentemente tutti uguali, con gli occhi a
mandorla, che non si sentono né si vedono, che si scambiano i documenti di riconoscimento, le
carte d’identità, i passaporti e tornano in Madrepatria in “containerate sottozero”. Che poi dove
muoiono i cinesi? Dove vanno a finire i corpi? Nei ravioli?
Questi cinesi non creano problemi, se non quando è già troppo tardi per accorgersene.
Ma a che serve dirlo? Perché “la Cina è qui!” ricorderà qualche appassionato
di “Grosso Guaio a Chinatown” ed è qui per restare.
In questo caos culturale, d’ignoranza etnocentrica di matrice occidentale, la Cina consolida la
posizione e avanza; e noi, come al solito, siamo in ritardo, anche se possiamo vantare una tradizione
di rapporti di estrema importanza con questo pachiderma politico. Marco Polo, Matteo Ricci,
Giuseppe Tucci. Forse in pochi sanno che la lingua italiana, grazie al lavoro di Giorgio Casacchia e
Bai YuKun (RIP) offre il più grande e completo dizionario esistente di lingua cinese. Nessuno in
Europa può vantare un’opera del genere. Oggi, a parte una ristretta cerchia di amanuensi del cinese,
cerchiamo di tappare buchi cognitivi. Perché quel che sappiamo influenza il nostro pensiero e il
nostro agire. Lo sanno bene Patrizia Liberati e Silvia Pozzi che, in questo frastornante gap culturale
mainstream nostrano, propongono, in qualità di curatrici, questo volume ben curato, che a tratti
diverte, a tratti lascia perplessi, e che, data l’importanza della sua opera di “ponte transculturale”,
sicuramente stuzzicherà gli ammalati di Cina, o coloro che ne sanno poco, gli studenti, i curiosi.
Perché nonostante gli sforzi di grandi sinologi del passato, oggi, del Paese di Mezzo sappiamo
ancora troppo poco.
I sedici racconti che compongono il libro cercano di offrire qualche spiraglio su questo abisso
sfuggente, sulla psicologia cinese contemporanea, sulle loro abitudini, le loro passioni, le loro
paure.
In trent’anni di riforma economica, anche con mummie come queste nella stanza dei bottoni,
abbiamo fatto passi da gigante. Sorridevo pensando a quali vette potremmo raggiungere,
quando saranno tutti nelle fossa, racconta Feng Tang.
E A Yi: Un attimo dopo le luci sul convoglio si riaccesero con una leggera intermittenza. La voce
incolore di un giovane uomo annunciò all’altoparlante: una persona si è suicidata buttandosi sui
binari! [scrivere di questo il giorno dell’anniversario del suicidio sotto un treno del grande poeta
cinese Haizi è una misteriosa sincronicità… ndr]. E A Yi continua: Trascorsero ancora dieci minuti
circa, poi il convoglio ripartì. Alla fermata scese e si trovò davanti una scena di ordinaria
quotidianità: tutto pulito, ordine e grande silenzio, bellezze sorridenti sui cartelloni e passanti
frettolosi. Soltanto che in un punto del muro e sulle rotaie c’era dell’acqua. Le tracce di sangue
erano già lavate via. Il personale, tenendo sollevato il mento, aveva portato via velocemente il
torso maciullato dalle ruote del treno. Lo avrebbero sciolto nell’acido all’istante, se solo avessero
potuto. Cosí si scompare dal mondo.
Leggendo A Yi ricordo l’insensibilità che spesso percepivo muovendomi tra la gente, avendo io
vissuto e lavorato in Cina per dieci anni, disperso chissà dove in quello sterminato continente cinese
in cui la vita vale veramente poco. Quando si incontrava un cadavere per strada talvolta la gente ci
camminava sopra, non ponendosi nessuna domanda, distratti dallo smog o da chissà cosa.
Quale compito colmare questo vuoto di conoscenza! In un momento politico e storico come questo,
d’altro canto, in cui tutto è in fermento e a velocità tale che non si riesce ad afferrare nulla al di fuori
di quel che non è più. In Cina poi tutto è già fantascienza.
Poco più avanti, sempre A Yi: Questo momento passerà, passerà questa giornata e metterò la testa
a posto, come nella poesia di Haizi [che qui ritorna! ndr], da domani taglierò la legna, foraggerò i
cavalli, mi occuperò del raccolto e dell’orto”, avrò una vita felice, persino più felice e gioiosa di
prima.
Impossibile dare giustizia, nel bene e nel male, a tutti gli autori (Milena Agus, Alessandro Bertante,
Paolo Colagrande, Gabriele Di Fronzo, Giorgio Ghiotti, Ginevra Lamberti, Laura Pugno e Mirko
Sabatino gli autori italiani. A Yi, Ge Liang, Feng Tang, Lu Min, Shu Qiao, Wen Zhen, Zhang Chu e
Zhang Yueran gli autori cinesi). Ma tra gli italiani spicca, a mio avviso, il racconto di Paolo
Colagrande “Granchi” (ottima scelta anche per via del grande amore culinario che i cinesi hanno
per questi crostacei). Sarei curioso di leggerlo in lingua cinese, di sentire i pareri della controparte,
per il modo in cui l’autore mostra, volontariamente o no, alcuni archetipi mentali tipici del pensiero
occidentale. Sicuramente incuriosirà i lettori cinesi.
Alessandro Bertante lucidamente ricorda a entrambe le parti che decenni di benessere hanno
spazzato via ogni memoria. Pochi saprebbero indicare il luogo preciso dove penzolarono sotto gli
sputi e i calci dei milanesi inferociti, la gente comune, la folla becera e terrorizzante di ogni tempo e
di ogni stagione politica. Io invece credo di conoscerlo il punto esatto, cammino a lungo ciò che
resta del fiume e raggiungo lo slargo. Le automobili sfrecciano veloci in tutte le direzioni.
Wen Zhen, con piglio sagace e corrosivo, incalza: “Legna, riso, olio, sale, salsa di soia, aceto e tè, i
sette elementi necessari per vivere, sembrano piccolezze ma possono ostacolare le cause più
gloriose”.
Il merito di questo lavoro Nottetempo, di concerto con una casa editrice cinese, la People’s
Literature Publishing House, è sicuramente quello di aver pubblicato questo volume
contemporaneamente in Italia e in Cina promuovendo alcuni autori nostrani in un Paese così
grande, così lontano, così ricco di possibilità e di rischi.
Lodevole, spero sia solo una prima opera. Seguirà forse un nuovo volume? Altri autori e differenti
aspetti di questa Cina che incuriosisce e spaventa, in cui la via della seta di cui tanto si parla talvolta
sembra più a portata di mano, tal altra si allontana ingarbugliandosi in meandri poco chiari?
Raccontare un po’ di verità dal basso, oggi serve più che mai, perché come ricorda Zhang Chu: Chi
è che vuole sentire bugie a ‘sto mondo, a parte i dittatori?
Noi certamente no.

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