Mi fa pensare immediatamente a quel dispositivo culturale che l’antropologo Ernesto De Martino chiamava correntemente “elaborazione del lutto” questo Cari agli dei di Goffredo Fofi, che esce ora in libreria da Edizioni e/o. Più programmaticamente, invece, è lo stesso autore a dichiarare che questa sua opera ha il solo fine di “rendere giustizia a chi, troppo presto, gli dèi hanno voluto strapparci”, anche se si tratta di un’abitudine più angosciante che consolante quella di parlare di chi non c’è più. Così, prende il via una rassegna che commuove di “morti giovani” di generazioni diverse presi troppo presto dagli dèi, spostandosi nel tempo dalla Seconda Guerra Mondiale al ’68, giungendo fino a oggi, rievocando esistenze, ribellioni, morti misteriose o causate da mano fascista, e riconsegnandole a un’attenzione presente, preservandole. Pagina dopo pagina, quella che chiamiamo rassegna diventa anche, e sopratutto, una ricostruzione storica, che ci riconsegna in maniera trasversale e diacronica un’Italia trascorsa nel tempo ma la cui eredità “deve” rimanere viva perché rappresentativa di un vero e proprio patrimonio culturale, politico e artistico. Tra i profili tracciati da Goffredo Fofi, abbiamo scelto un estratto da quello dedicato alla scrittrice e politica Mariateresa Di Lascia.
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Mariateresa
Non ho ritrovato la recensione di Passaggio in ombra che scrissi nel 1994 o ’95 quando uscì da Feltrinelli, sorpreso dalla forza di un romanzo che affrontava nodi familiari e culturali, storici e sociali importanti con una sorprendente maturità. Non era certamente l’opera di un letterato come ce n’erano e ce ne sono tanti, esprimeva una ricerca e un vissuto, dimostrava una maturità davvero insolita per un’esordiente – anche se si trattava di una persona, come ci diceva il risvolto con la tradizionale notizia sull’autore, che aveva molto vissuto e molto lottato. Lo considero ancora uno dei capisaldi del romanzo italiano di quegli anni e lo vedo, pur con la sua differenza, vicino all’opera di due scrittrici napoletane più segnate di lei dalla storia della città, Fabrizia Ramondino, venuta prima, e Elena Ferrante, venuta dopo (loro più metropolitane, lei più ampiamente meridionale, e “contadina”).
Non era possibile rimediare, Mariateresa era morta, e me ne venne un rimpianto di non averla conosciuta che si accrebbe quando fui chiamato a presentare il libro, a Napoli dove ero di casa, insieme a un grande amico e maggiore, Gustavo Herling, e c’erano sua moglie Lidia e sua figlia Marta testimoni di una lunga amicizia con Mariateresa, c’era Sergio D’Elia, il compagno con cui aveva diviso le battaglie di “Nessuno tocchi Caino”, che interrogai a lungo su di lei a presentazione conclusa, a un tavolino del bar di piazza Dante.
Com’era stato possibile che non l’avessi conosciuta? mi chiesi. Prestavo di solito molta attenzione a ciò che si muoveva in quella città così amata e vissuta, e in cui avevo lottato anch’io, con tanti amici e con tante amiche, da Vera Lombardi a Fabrizia Ramondino alle ragazze della Mensa Bambini Proletari di Montesanto, a tante ostinate e pugnaci compagne, di formazione intellettuale ma anche davvero “di base”, ma Mariateresa non l’avevo conosciuta. Negli anni settanta, forse, perché era troppo giovane – anche se la sua “vita pubblica” comincia nel ’75 con l’iscrizione al Partito radicale – ma più probabilmente, come anche in seguito, perché non ebbi nessun rapporto con il suo Partito (mea culpa) per un forte pregiudizio nei confronti del suo leader. Eppure solo i radicali, negli anni in cui il movimento studentesco si divideva in partiti e in sette e predicava la violenza per poi, in una sua parte, praticarla, tennero alte due istanze alle quali avevo creduto e credevo, la nonviolenza e una pratica sociale immediatamente diretta a chi soffre di più, agli strati subalterni di una popolazione che non era stata ancora toccata dal benessere e non ancora corrotta dai miti del mercato e dalla stupidità mediatica. E come sono belle e rallegranti le pagine che Mariateresa dedica a questi due temi, per la loro libertà di pensiero, un’autonomia sgombra da fideismi e pregiudizi, coraggiosamente non-conformista, probabilmente anche nei confronti di molte persone a lei vicine!
Certe sue affermazioni non compiacciono affatto la vulgata femminista dell’epoca e neanche quella politica. E neanche le idee correnti sulla droga, sul sesso, sulla religione… È questa libertà di pensiero, in un’epoca in cui era assai più rara di quanto non si pensi – un’epoca che fu di nuovi catechismi e libretti rossi, e di leader carismatici, di idolatrie per fortuna transitorie quanto la pretesa di una diversità più apparente che reale, o più fragile e più facile al compromesso come si vide quando i movimenti decaddero –, è questa libertà a produrre il fascino dei testi che oggi possiamo leggere grazie all’amore vole fatica di Antonella Soldo1 , che deve aver subìto anche lei a ritroso il fascino di questo personaggio così testardamente semplice ma invero “radicale” anche nella sua semplicità.
Avrà probabilmente avuto anche i suoi difetti, Mariateresa, ma nel libro vengono in luce i suoi pregi, che sono davvero tanti anche sul piano di una pratica politica sorretta da una convinzione profondissima, quella che Aldo Capitini chiamava “persuasione”. Leggendo questi testi, Mariateresa mi sembra, una “persuasa” proprio in senso capitiniano: qualcosa di più di una “militante” o di una “attivista”, qualcosa che va oltre la politica. E di questo ella aveva sicura coscienza, sapeva di dover portare nella politica quel di più che appartiene all’etica e alle inquietudini più profonde dell’animo umano, la ricerca di una risposta alle domande più (ci risiamo!) “radicali”. Non mi ha stupito leggere a un certo punto, in queste pagine, un richiamo a Elsa Morante, a un’altra maestra non segreta ma allora apprezzata da pochi come tale, solo dalla parte più preoccupata e forse tormentata di una generazione che era la meno supina nei confronti delle mode, sia pur giovanili e nuove.