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Grado zero. Intervista a Carlotta Cicci

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Feroce analisi autobiografica e controllato slancio giovanilistico. Di questi due elementi sembra comporsi l’amalgama che dà luogo alla poesia di Carlotta Cicci, fotografa e videomaker romana di stanza a Bologna.

Senza dimenticare assolutamente la presenza di una sorta di misticismo religioso, che aleggia con forza in molte delle pagine di Grado zero (MC edizioni 2024, pagg. 77, € 14,00), sua seconda raccolta poetica giunta a breve distanza dall’esordio, Sul banco dei pesci.

Di quest’ultima può apparire come una continuazione più affinata nell’esposizione, ma con lo stesso impianto capace di accogliere il ringhio come il canto.

Unisce infatti al suo interno senza volutamente creare una omogeneità, parole roride al punto da apparire fortemente retoriche (se non barocche) e versi dove lo slancio emotivo si fa spesso tagliente confessione di un vissuto non semplice, non leggero; oppure si carica di una passionalità senza sconti, cruda se non crudele.

Classicamente diviso in tre sezioni, Grado Zero trova il suo perno sulla terza e ultima di esse, quella Tulipani neri che porta il lettore dentro una forma di scrittura magmatica – apparentemente meno controllata eppure funzionale alla lingua dell’autrice, la stessa che occupava tutto lo spazio della raccolta di esordio. Un modo per ricordare la sottintesa identità diaristica e consequenziale (forse cronologica) dei testi che Cicci monta in maniera non propriamente sinestetica, più che altro seguendo una precisa assonanza di immagini e di temi.

Abbiamo parlato di questo e altro con l’autrice.

Sergio Rotino

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In Grado zero torna spesso l’uso della similitudine. Cosa rappresenta per te questo strumento della lingua?

«Le similitudini, ma forse ancora di più le metafore, sono gli strumenti che mi servono per dare luce alle visioni che scorrono nella scena e in cui si susseguono sentimenti, energie, stati d’animo… Tutte forze umane che, per me, non risultano mai spiegabili in altro modo e che sempre sfuggono nella loro intensità e sacralità. Spesso le visioni sono quasi immobili in questi frammenti di similitudini al cui interno si concentra tutto e dove il tempo sembra non esistere».

I poemetti che hai inserito in questa tua seconda prova, tornano a proporre un forte autobiografismo, soprattutto una centralità dell’Io che si impone come autobiografico. A volte è così ravvicinato al soggetto da non permettere di vedere il contesto in cui agisce. In un passaggio arrivi a scrivere “io così ravvicinata/eccessiva/sigillata”… Ma è veramente necessario convivere con il proprio lato biografico per scrivere poesia?

«No, probabilmente non è necessario. Però non credo vi sia un processo uguale per tutti, in poesia. Quello che trovo sempre necessario è l’onestà… Anche nella confusione, anche nello smarrimento. E la responsabilità di quando scegliamo di consegnare al mondo il nostro Dire e il nostro Sentire. Deve essere onesto, nudo anche quando non è confortante. Deve passare per una propria integrità… Non conosco un altro luogo se non il proprio Io da cui attingere per fare questo.

Poi non credo che la poesia debba sempre essere autobiografica. Nel mio caso passa anche da lì. In certi momenti si immerge nell’Io perché credo che le proprie esperienze siano un privilegio in cui ci educhiamo a sentire e a diventare quel che siamo ogni giorno. Noi possiamo essere solo noi stessi. Logico che, nella nostra umana similitudine e nelle esperienze degli altri, possiamo riconoscerci, rifletterci, incontrarci. Allora quell’autobiografismo di cui stiamo parlando, diventa un dono ulteriore».

L’adolescenza sembra essere un altro dei punti centrali della tua poesia. Perché ha così tanta importanza per te?

«Ti ringrazio per questa domanda. Hai trovato un nodo che è fondamenta della mia esistenza.

Attingo spesso all’adolescenza. Mi è cara, mi è sacra, mi è fedele. L’adolescenza rappresenta l’attimo prima della contaminazione, ma è anche il momento più doloroso, difficile e al contempo felice e fluido che tutti noi esseri umani viviamo, indipendentemente dalle esperienze.

Nel mio caso è stata una fase molto complicata. Un viaggio ramingo nel sentire me stessa, ma anche il mondo, ma anche gli impulsi, ma anche la mente e il corpo, all’interno di una corsa a volte spietata a volte purissima.

L’adolescenza è per me quel momento di espansione, di prolungamento, di esplorazione, di messa in gioco di ogni istanza che arriva all’improvviso alla nostra consapevolezza. L’unico modo per capirla è consegnarla al mondo perché ci risponda e il mondo non è sempre buono…

È anche quel momento in cui si inizia a voler essere soli, ma anche col mondo. È l’eterna dicotomia per eccellenza, in cui non si sta mai al centro né da altra parte. È quell’attimo in cui l’Io non sa di essere ancora Io, ma quel corpo esce definitivamente dal ventre. È il tempo della violenza come dell’estrema tenerezza».

Alla tua città natale, Roma, dedichi un poemetto che va a comporre l’intera seconda sezione del libro. Al suo interno, la nostra capitale è una presenza contrastiva, multiforme, direi senza pace, un vero pugno secco allo stomaco. Eppure non ne fai un luogo da cui fuggire.

«Roma è la mia casa, la mia luce e la mia aria, la mia mappa e la mia geometria. Mi incarna e io incarno lei senza scampo, per quante città possa cambiare. L’essere andata via da Roma, mi fa sentire in esilio, sospesa in degli altrove in cui non mi riconosco e dove non riesco a lasciare l’impronta. È un problema di legame con la psiche del luogo: Roma (e aggiungo il suo mare) è madre psichica.

Non è “un luogo da cui fuggire”, almeno per me. Ma sono ugualmente andata via. E mi rimane un dolore profondissimo perché è come non riuscire più a vedere nello specchio parte del mio corpo.

Sì, hai ragione, è contrastiva, multiforme e impossibilitata a trovare pace, ma è anche impossibilitata a far dimenticare la vita. Perché Roma non dorme mai. Come scrivo, “implacabile continua a girare/come un serpente/come un’alba interminabile”. Lo fa in tutte le misure e forme: quelle che mi hanno insegnato l’umanità in tutte le sue dimensioni e stratificazioni e contraddizioni. E poi…»

E poi?

«Beh, è la metropoli più bella del mondo. Posso concedermi di dire con arroganza romana che nascere a Roma, crescere e vivere a Roma, è un delirio, un tormento e una meraviglia, ma è anche un sottilissimo privilegio».

Come figure di riferimento, in Grado zero sembra comparire in filigrana la figura di Celan, mentre tu citi apertamente Alessandro Ceni più volte, e Nanni Cagnone e Milo De Angelis. Sono questi i riferimenti di elezione per la raccolta? E sono anche quelli che ti accompagnano da sempre?

«Ti confesso che non sono cresciuta leggendo poesia.

Ho iniziato tardi, a farlo. Invece scrivo da sempre, da che ne ho ricordo. Il mio primo libro, Sul banco dei pesci, è nato con pochissime letture alle spalle.

Così potrei dire è avvenuto anche per Grado Zero. Entrambi sono stati pubblicati molto tardi rispetto al momento in cui li ho chiusi».

Pare una cosa per lo meno bizzarra.

«Credimi, ho letto tantissimo negli ultimi anni. Anche se non penso di avere un riferimento netto per la mia scrittura.

In qualche modo non è contaminata da stili e forme. Potrei dire nasce da qualcosa di simile a uno “stato brado”. Ecco potrei definirla così. Detto questo, ho i miei nomi, a cui attribuisco un grande valenza poetica, dalla scrittura alla visione al ritmo, ognuno per i suoi precisi motivi.

Sono Alessandro Ceni, Milo De Angelis, Alfonso Guida, mio marito Stefano Massari, Pier Paolo Pasolini, Silvia Bre, Francesca Serragnoli, Giovanna Sicari, Amelia Rosselli, Sylvia Plath…»

Torniamo a Grado zero. Il bianco compare in più punti della raccolta, come colore della morte, ma soprattutto del destino che non si può eludere. Almeno così sembrerebbe.

«Per me, il bianco non rappresenta la morte, nemmeno il vuoto o il niente. Rappresenta anzi una sensazione purissima di giusto, di incontaminato. E qui mi viene da pensare nuovamente alla parola “tempo”, a ciò che rappresenta. Voglio dire che non ho un buon rapporto con esso, fondamentalmente non lo capisco. Ne ho come una percezione alterata… Intendo di quello che è stato e di quello che passa, di quello che dovrà arrivare e di quello che vivo. Non ci faccio pace, lo rincorro, lo aspetto o mi fermo di continuo».

Perciò?

«Perciò il bianco è quando il tempo svanisce. Allora le cose possono rimanere per sempre illuminate, così come sono: inconsumabili. Allora il destino, che come dici “non si può eludere”… Beh, ha più senso».

I testi di Grado zero sembrano spesso essere accompagnatori di rituali divinatori, o quel che rimane di oscure dichiarazioni. Paiono inoltre intrisi di una religiosità che ferma a un passo dalla blasfemia.

«La vita è divinazione. Con lei le nostre esistenze diventano riti e rituali intrisi di paure, fragilità, incertezze terrificanti, ma anche di un senso di onnipotenza devastante e, per come la vedo io, inutile.

Anche qui torniamo alle solite dicotomie che ci appartengono, ma che definiscono anche le nostre scelte, le direzioni prese, i nostri valori come esseri umani.

L’unica cosa che ha differenziato noi umani dagli animali nella scala evolutiva è stata la consapevolezza. E la consapevolezza si nutre di una domanda: Perché?

Esistono la scienza, le religioni, la filosofia e l’esoterismo. Mi sembra che l’uomo corra dietro a qualsiasi cosa pur di sentirsi al sicuro, pur di giustificare l’ignoto.

Io sono credente in nulla. Mi sta bene così e mi concentro sul conoscere quello che posso osservare: il mondo e quanto conosciamo di lui, attraverso gli strumenti che abbiamo e avremo. Lo esploro con la mia piccola e breve vita, tramite i mezzi che mi sono concessi. Però tutta la preadolescenza l’ho vissuta in strutture molto cattoliche. Quindi vivo la religione da una parte come una grande metafora (dai testi, ai riti, all’atteggiamento umano verso di essa), dall’altra come l’emblema di smanie, sofferenze, alterazioni e credenze che tolgono troppo spesso spazio alla consapevolezza di se stessi e degli altri.

Mi dici che sfioro la blasfemia. Ecco, la sfioro perché sono rattristata dal quanto gli esseri umani affidino a un dio o ad altre questioni non dimostrabili il proprio destino, le proprie scelte, non guardando a quanto c’è, ovvero la terra, gli animali, noi stessi, intesi come esseri umani tra altri esseri umani. Non siamo divini, ma esistiamo. Siamo qui e ci meriteremmo l’un l’altro una attenzione diversa da quella che invece riceviamo. Non sarà un dio e nemmeno saranno le stelle a rendere il mondo migliore. È responsabilità nostra essere migliori e accettare la natura della vita.

Attenzione, non manco di rispetto verso le credenze altrui. Ma nella mia poesia c’è una visione del mondo totale, e questo tema per me è rilevante».

L’ultima delle tre sezioni di questa raccolta, Tulipani neri, occupa il libro quasi per intero. Lì trovano spazio testi in cui saldi mistico a profano, alto a basso. È il luogo dove ti esponi e contemporaneamente ti nascondi, in un continuo gioco di equilibri.

«Non so se si tratta di equilibrio. Preferirei definirlo un movimento che, nella sua dicotomia, ci permette di svelare ogni sfumatura e ogni estremo di noi stessi e del mondo.

Una oscillazione fatta di polarità continue, in cui le definizioni che noi esseri umani cerchiamo del mondo chiedono e rispondono senza interruzione.

L’essere umano, a mio parere, non nega mai l’animale. Quello che però ci contraddistingue è la ricerca, la spinta alla conoscenza, per sconfiggere l’horror vacui e la paura; e gli elementi guida sono l’esperire, il verificare, il dubitare. Quindi il continuare, di certo non il concludersi».

Un’ultima domanda. Quanto influisce il tuo lavoro di videomaker sul montaggio così frammentato ed ellittico dei tuoi tuoi testi?

«Molto. Montare in video mi fa sentire materia qualsiasi segno, compresa la parola. E poi il ritmo… Il montaggio video mi ha insegnato il battere, il tenere il tempo, quindi la pulizia del segno. È come esistesse una continua incisione di tutto.

Ci sono comunque momenti in ho bisogno anche di scorrere, di fluire. Sicuramente il lavoro di videomaker mi ha dato degli strumenti di pulizia incredibili. E questo porta alla mia poesia, che è molto visionaria e dove, non a caso, l’immagine risulta sempre essere l’input, il mio input».

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